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Ugo Vlaisavljevic

Filosofo, Università di Sarajevo
 biografia

Dopo il collasso del socialismo jugoslavo, di fatto, il ritorno della religione o il ritorno alla religione, ossia ciò in cui le comunità religiose maggiormente speravano, coincise con il raggiungimento degli obiettivi dei separatismi etno-nazionalisti. Questa comunanza di obiettivi può essere spiegata nel modo più semplice come segue: ricostruire e ricreare i gruppi etnici come se coincidessero con le comunità religiose, in modo da rompere la comunità socialista, formata da cittadini, lungo le linee che separano una religione dall’altra.
Oltre alle campagne militari e simili strategie violente, come era possibile che i nazionalisti raggiungessero i loro scopi permettendo semplicemente alle autorità religiose di compiere il proprio dovere e promuovere i propri interessi in un contesto democratico, senza imporre loro alcunché in campo politico? Vi fu una specie di sinergia, senza che vi fosse la necessità di collaborazione tra autorità religiose e politici nazionalisti. Bisogna forse sostenere che il ritorno impetuoso della religione in una società multietnica necessariamente porti alla divisione di tale società? Tendo a pensare che soltanto una separazione protrattasi per un lungo periodo, quasi mezzo secolo, tra la religione da un lato e lo stato e la politica dall’altro, abbia potuto far sì che le autorità religiose locali, e persino intere comunità religiose, fossero isolate le une dalle altre.
Sotto la pressione del regime anticlericale, gli individui soffrivano di isolamento: credenti della stessa comunità religiosa erano isolati gli uni dagli altri, oppure la loro unione aveva un carattere settario, senza formare una vera comunità. Di conseguenza, dopo il collasso del socialismo ed il ritorno alla religione, ogni comunità religiosa iniziò da sola il proprio rinnovamento religioso, isolata dalle altre. Fu così che le comunità religiose, ognuna delle quali era concentrata con i propri affari, non furono in grado ad essere di supporto al ricrearsi della società della Bosnia-Erzegovina. La loro stessa fede, in definitiva, li separava dagli altri: dai non credenti e da coloro che non condividevano la loro religione.
Tuttavia, quando il prossimo soffre a causa della guerra, vi sono specifici imperativi morali che si impongono. Fu la “nuda vita” (G. Agamben) delle vittime che mise alla prova le virtù e la dignità di ogni singolo credente. Per “nuda vita” non intendo soltanto una vita caratterizzata dalle miserie della guerra, ma anche una vita che non può considerarsi conforme ai criteri dati dall’ “unica vera (cioè la “nostra”) religione”. Civili indifesi che si trovavano nel pericolo, intrappolati dalla parte del nemico, che, di norma, agitava la bandiera di una religione diversa dalla propria, ponevano ai credenti la sfida della “nuda vita”. Sembra che i credenti che trovarono salvezza e redenzione nel loro esercito vittorioso e nella propria comunità religiosa non si preoccupavano molto di coloro che adoravano altri dei e che avevano perso tutto eccetto le loro vite.
La questione non era che gli aiuti umanitari promossi da associazioni di beneficenza ed organizzazioni religiose durante l’ultima guerra fossero troppo esigui. Il vero problema fu che il loro ambito era troppo ristretto: aiuti cattolici ai Croati, quelli mussulmani ai Bosniaci e quelli ortodossi ai Serbi. Ciò è comprensibile, e non è sorprendente: durante la guerra tra le etnie i canali per la cooperazione trans-etnica erano molto sottili, se non bloccati del tutto, ed in essi erano insiti pericoli spesso mortali. Meno comprensibile è la non disponibilità alla cooperazione da parte del clero delle tre maggiori confessioni alla vigilia della guerra. Vi erano, tuttavia, delle buone ragioni anche per questo: nei primi anni di democrazia erano pienamente assorbiti nel processo di rigenerazione delle rispettive comunità. Tuttavia, ciò che non è accettabile è che persino ai nostri giorni, più di quindici anni dopo la fine della guerra, i leader religiosi locali e i loro fedeli rimangano trincerati nei loro mondi.
Ogni cittadino sa quanto sia seria la minaccia della divisione definitiva del proprio paese. L’attuale vita religiosa in Bosnia ed Erzegovina continua ad essere un modello perfetto della separazione: ognuno nella propria comunità. Il fatto è che dopo il ritorno della religione i confini dei maggiori gruppi etnici siano quasi sovrapponibili ai confini religiosi desta serie preoccupazioni per quanto riguarda le prospettive di convivenza all’interno della stessa società. E’ a causa di questa importanza cruciale che i leader religiosi accettano finalmente una vera responsabilità politica: la responsabilità di promuovere il bene comune della società nel suo insieme.
Nel momento che le comunità religiose cattolica, mussulmana ed ortodossa vennero rigenerate ed i loro rappresentanti entrarono nella scena della vita pubblica, nacque la necessità non soltanto del dialogo interreligioso ma anche di un vero impegno politico delle autorità religiose e dei fedeli, a favore del bene comune, al di là di ogni barriera etnica. Il dialogo interreligioso è proseguito ininterrottamente negli anni dopo la guerra, ed ha portato a frutti tangibili. Ma gli obiettivi maggiori che essa ha perseguito sono stati determinati dall’interesse proprio di ogni comunità religiosa. L’azione coordinata di tutti gli organismi religiosi è stata focalizzata maggiormente nel contrattare con le autorità statali i benefici che avrebbero potuto assicurare alle comunità religiose coinvolte. La direttrice principale sulla quale si snoda il dialogo interreligioso dopo la guerra è stata quella del confronto tra religione e lo Stato. Si accorda perfettamente con il rispetto del principio di una rigida separazione tra Stato e Chiesa.
Tuttavia, vi è bisogno di un passo più coraggioso nel lungo periodo. Le massime autorità religiose del paese dovrebbero finalmente assumersi una maggiore responsabilità politica. Si tratta effettivamente di un passo avanti verso la politica nel vero senso della parola. Non meraviglia il fatto che molti leader religiosi siano riluttanti a compierlo. Molti politici responsabili sbarrano loro la strada, in modo particolare coloro che sentono fortemente l’impegno verso la causa comune del popolo bosniaco. Tali politici sono contrari ad ogni forma di interferenza della religione nella politica. Essi sono sostenitori di una forma rigida di laicismo, quasi fosse la formula magica per risolvere il problema della convivenza in Bosnia. Di solito sentono una grande nostalgia per i giorni gloriosi dell’ateismo militante. Nell’insieme di eventi chiamato “ritorno alla religione” vedono l’aprirsi del vaso di Pandora.
Quindi, allo stato attuale, vi è quasi un’identità di vedute ed una specie di divisione del lavoro tra politici patriottici di sinistra e leader religiosi influenti. Ambedue le categorie di persone obbediscono al rigido comandamento laicista: lasciate la religione fuori dalla politica. Secondo il punto di vista che condividono, e che è tipico del regime passato, la politica si identifica con la politica dello Stato, mentre la sfera della società civile con la tipologia di politica civica, non-governativa che la contraddistingue, viene trascurata se non deliberatamente omessa. E ciò avviene nonostante il fatto che la recente rigenerazione, ovvero ri-socializzazione delle comunità religiose è avvenuta grazie all’emergere della società civile.
Le campagne pubbliche e le attività di intenso lobby (inclusi i commenti sull’attività quotidiana dei politici e su eventi importanti di rilevanza sociale, come le decisioni dei tribunali sui crimini di guerra) che molti leader religiosi svolgono per conto delle loro comunità religiose non possono essere considerate in nessun modo delle attività apolitiche. Svolgere tali attività in favore del bene e della prosperità della società nel suo complesso non è assolutamente un’interferenza politica inaccettabile. E’ passato il tempo in cui i leader religiosi potevano essere apolitici senza avere alcun rimorso (laddove per “apolitico” si intende “senza avere alcuna preoccupazione per il bene o la sofferenza dei membri di altre comunità religiose”).
E’ decisamente giunta l’ora affinché le autorità religiose si assumano il peso della società intera e non soltanto delle rispettive comunità. Perciò, la domanda più importante per l’attuale vita religiosa in Bosnia è: “perché dovrebbero farlo?”, ovvero “perché dovrebbero non farlo?”.
Il primo passo per superare l’atteggiamento di apoliticità tra gli uomini di religione potrebbe essere quello di porre la volontà di redenzione della “nuda vita” al di sopra della ricerca di una vita confortevole a servizio della “vera religione”.