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Daniel Deckers

Giornalista di "Frankfurter Allgemeine Zeitung", Germania
 biografia

Il filosofo greco Aristotele diceva, come ci è stato insegnato alle lezioni di filosofia, che lo “stupore” è l’inizio dell’amore per la saggezza, e cioè della filo-sofia, parola che in molte lingue del mondo è rimasta immutata fino ad oggi. Un pallido riflesso di questo stupore sta nell‘atteggiamento del redattore, il quale, dovendo sfogliare e valutare centinaia, se non migliaia, di informazioni al giorno, ormai non è più in grado di stupirsi, ma almeno si pone ancora la domanda: “Qual è la novità in tutto questo?”

Così dunque, se ben mi ricordo, è diventata un’abitudine che durante gli incontri annuali per la pace della Comunità di Sant’Egidio ci si interroghi sul ruolo dei media nell‘esplosione, nell‘evoluzione e, possibilmente, anche nella soluzione dei conflitti. Non c’è niente di nuovo in questo.

Cambiano tuttavia le occasioni di questa riflessione, il che richiede un nuovo ragionamento. Pensiamo, dunque, quest’anno allo scoppio di quella che in Germania chiamiamo la Prima Guerra Mondiale, esattamente in questo luogo in cui ci troviamo, il Belgio, la cui neutralità fu intenzionalmente ignorata dall’impero tedesco e che divenne improvvisamente, con la distruzione della biblioteca dell’Università di Lovanio, teatro delle prime epocali atrocità di guerra cui ne sarebbero seguite molte altre.

Questa quindi sarebbe la sede giusta per valutare il ruolo svolto dai media in quelle fatali settimane prima e dopo il 1 agosto 1914. Tuttavia non credo che questo sia il luogo appropriato per elaborare delle valutazioni storiche.

Un altro fattore è a mio parere ben più pressante, cioè il cambiamento della dinamica stessa del conflitto, attraverso l’utilizzo dei cosiddetti nuovi media, primi fra tutti i nuovi social network. Se jiahidisti nel nord Iraq giustiziano barbaramente un giornalista loro prigioniero, riprendono quest’azione, la pubblicano su internet e milioni di persone in tutto il mondo ne diventano spettatori intenzionali o casuali, si è raggiunta senza dubbio una nuova dimensione nella determinazione dei rapporti tra conflitti e media. 

Sicuramente non di rado le esecuzioni sono state atti pubblici, a volte addirittura occasioni per divertire il popolo (pensiamo ad esempio alle autodafé). Ovviamente si  pensava allora che attraverso quello spettacolo si potesse raggiungere una giustizia superiore che avesse un effetto catartico. Il boia tuttavia, l’uomo le cui mani infliggevano la morte, era considerato ignominioso e il suo mestiere era stigmatizzato.

È chiaro anche che notizie di atti barbarici sono sempre state redatte e che la loro diffusione non è mai stata svincolata da calcoli politici.

Pensiamo solamente al “breve racconto della distruzione delle Indie” del domenicano Bartolomeo de Las Casas nel XVI secolo, uno scritto polemico che, come oggi sappiamo, falsificava grossolanamente la verità sulle prime colonizzazioni spagnole nei Caraibi. La “Brevísima Relación” per secoli ha contribuito alla diffusione della “leyenda negra” cioè la disumana colonizzazione spagnola. Questa “leyenda” fu sfruttata dai ribelli olandesi e dai rivali della Spagna, cioè gli inglesi e i francesi, nella lotta per il dominio dei mari allo scopo di gettare discredito morale per secoli sull’impero asburgico e su tutti i successori al trono spagnolo e allo stesso tempo per distrarre l’attenzione dai loro atti barbarici.

Come terza considerazione, c’è da dire che immagini e notizie da luoghi di conflitto e sui conflitti stessi, da sempre sono sottoposte a controlli, censura e manipolazioni più di ogni altra notizia. “La prima vittima della guerra è la verità”: è un’affermazione che sentiamo da tempo immemore.

Permettetemi di tornare alla prima guerra mondiale. Fu la prima guerra combattuta utilizzando le immagini come mezzo di propaganda e in cui le parti compresero che, grazie alla nascita dei mass media, l’immagine con la sua forza suggestiva ben maggiore delle parole era a loro disposizione.

Qual è allora la novità nell’utilizzo dei nuovi media sociali di cui parlavo prima?

In primo luogo, l’utilizzo di nuovi media elettronici da parte delle fazioni in conflitto non solo ha moltiplicato la quantità di informazioni provenienti dai teatri di guerra e riguardanti la situazione del conflitto, ma ha anche attribuito una nuova importanza alle notizie, perché la propaganda del nemico viene combattuta in tempo reale con mezzi propagandistici.

Non vengono surclassati solo i media classici, quali quotidiani e riviste, ma anche quei servizi di attualità con una timeline in tempo reale, minuto per minuto (ad es. “Live ticket”).  

In questo modo si corre il rischio che la propaganda di una o l’altra parte in conflitto non solo ci inganni, ma divenga sempre più incontrollabile. Soprattutto le funzioni di filtro non riescono più a svolgere la loro efficace funzione. In passato si usava dire che l’informazione fosse una questione di fiducia; ma da dove dovrebbe venire questa fiducia se non si riesce ad aver fiducia negli stessi mass media?

C’è un altro aspetto che credo sia da considerare nuovo nell’utilizzo dei media sociali. Quelli che vengono definiti media “seri”, sia a stampa che in formato elettronico, si sono da molto tempo dati la regola di non diffondere per motivi di rispetto immagini eccessivamente violente, innanzitutto quelle di cadaveri e di parti di cadaveri. Indipendentemente da quali possano essere state e quali siano ancora oggi le ragioni di questa scelta, Internet non conosce questo filtro. Al contrario, si è dimostrato un catalizzatore di ogni umana perversione, cui fa pubblicità, anche se per un limitato periodo di tempo: pensate ad esempio alla diffusione a livello globale della pedopornografia.

Cosa si vuole ottenere con la diffusione su scala mondiale della barbarica esecuzione di un ostaggio innocente? Se la mia impressione non è errata, la funzione di quel video, continuamente rimosso e ricaricato su Youtube, non è quella di screditare il nemico, né di rompere certi tabù estetici. A livello politico l’assassinio di Foley, secondo la logica occidentale, potrebbe essere addirittura controproducente, poiché nel medio termine potrebbe modificare l’atteggiamento delle democrazie occidentali, tuttora per lo più contrarie alla guerra, verso una posizione favorevole a una risposta militare. 

Mi sembra che la “notizia”, nel senso di novità, sia un’altra: cioè che ci siano persone, che in parte sono vissute nelle società occidentali, orgogliose di rompere in nome della loro religione e in maniera radicale con quella concezione della dignità della persona e del valore della vita modellata su valori cristiani.

Questo messaggio non è solo un’autoaccusa degli esecutori di Foley. Ha dei destinatari precisi, concreti: si rivolge, oltre che alle società occidentali come tali, a giovani uomini che in nome di un’interpretazione radicale dell’Islam devono agire come quegli assassini. Lo scopo di questa mobilitazione non è nuovo; nuovo è il metodo e ovviamente il suo effetto: il numero dei musulmani e dei convertiti all’Islam che intraprendono il cammino della jihad è in costante crescita. 

Che cosa significa? Per chi? In conclusione voglio esporre brevemente tre riflessioni. 

L’utilizzo propagandistico dei media sociali in tempo reale, evidenzia la difficoltà crescente di farsi una idea realistica, o anche solo vagamente realistica, dello svolgersi di un conflitto. Questo vale tanto per l’Iraq quanto per l’Ucraina. Allo stesso tempo, molti dei media classici, prima di tutto i quotidiani di qualità e le emittenti radiotelevisive, sono nel mezzo di una crisi esistenziale. Gli uffici dei corrispondenti vengono chiusi, i redattori licenziati, il volume ridotto. Con questo non intendo dire che i media dovrebbero arrendersi, così come non sono spaventato dalla prospettiva che forse fra dieci o vent’anni non verrà più stampato nessun quotidiano. Tuttavia sia un quotidiano online che un portale-online serio hanno bisogno di redazioni competenti e indipendenti: questa è la mia reale preoccupazione.

Le democrazie devono essere coscienti che l’esistenza stessa di una pluralità di media indipendenti è in enorme pericolo. Ma questi media sono indispensabili alla società, al processo di formazione di un’opinione e di una volontà politica. Dove ci porterà questa strada? Per quanto riguarda il giornale che io rappresento, posso garantirvi che non abbandoneremo il campo senza dare battaglia, perché andrebbe a beneficio soltanto di coloro che vorrebbero evitare il controllo dei media indipendenti. Questo, tuttavia, aumenterebbe la possibilità di conflitti non solo all’interno della società, ma anche per la politica estera le conseguenze sarebbero incalcolabili. I politici, guidati solo dalle opinioni e dagli umori, non riuscirebbero a prendersi impegni impopolari, come “la responsabilità di proteggere”. Per esempio, qual è stata la risposta all’appello di Andrea Riccardi per salvare la città di Aleppo e la sua popolazione con una missione internazionale? O anche qual è stata la reazione alla sorprendente richiesta di papa Francesco alla comunità internazionale di opporsi all’avanzamento dell’ISIS nel nord dell’Iraq con una forza militare a mandato ONU?

Forse nella concomitanza di digitalizzazione e crisi dei media classici vi è un’opportunità: più vengono usati i media sociali nei conflitti in tempo reale e più c’è bisogno di osservatori professionisti che analizzino gli eventi e li convoglino in servizi giornalistici che espongano le caratteristiche basilari e le dinamiche del conflitto. I nuovi media sociali non rendono superflui i media classici, al contrario: li rendono più necessari che mai.

In terzo e ultimo luogo, è una barbarie senza paragoni il fatto che video come quello dell’uccisione del fotografo James Foley debbano circolare su Internet. Anche solo guardare un uomo che dice le sue ultime parole con una paura mortale, lasciando stare che venga poi massacrato come un animale, è un crimine contro l’umanità. Vorrei che il mondo civilizzato desse il massimo per evitare che Internet divenga un posto per far circolare immagini disumane. Questo, ovviamente, non rimuove le cause del conflitto (che non è neanche un conflitto interno dell’Islam) di cui James Foley non è che una delle numerose vittime. La ragione per cui c’è così grande indignazione per la sua uccisione è che era americano. Chi si sconvolge per le migliaia, le decine di migliaia, le centinaia di migliaia di vittime del conflitto siriano e di altri conflitti che non hanno un volto? Il compito dei media in un conflitto resterà sempre quello non tanto di dare un volto, spesso neanche un nome alle vittime, ma almeno di non guardare da un’altra parte.