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Francesca Zuccari

Gemeinschaft Sant’Egidio, Italien
 biografie

Il dibattito sull’umanizzazione delle pene è un dibattito antico: non coinvolge a mio avviso solo il trattamento o l’organizzazione della vita carceraria e il suo adeguamento al rispetto della dignità dei detenuti. Se vogliamo affrontare il problema in profondità dobbiamo chiederci quale è il senso che le società attribuiscono alla pena e in particolare quale funzione svolge nell’esecuzione della pena la privazione della libertà cioè il tempo della detenzione.

Ci poniamo per altro questa domanda ben conoscendo l’inefficacia in termini di recupero e riabilitazione della reclusione: un detenuto in Italia che sconta tutta la sua pena in carcere ha circa il 60% di probabilità di rientrarvi. Questo a mio avviso è il vero cuore del problema. 

Papa Francesco ha usato recentemente una espressione carica di significato “non c’è pena valida senza speranza”. E’ una affermazione che coinvolge alla radice il senso stesso della giustizia: in altre parole la pena non è il corrispettivo del reato ma un percorso di cambiamento. Ha uno scopo valido solo se riconosce il diritto alla speranza di una nuova vita.

Non si tratta quindi di attenuare la responsabilità penale sempre soggettiva e la necessaria consapevolezza delle lacerazioni prodotte dal male compiuto ma di lasciare sempre aperta la porta al pentimento e alla riabilitazione. 

Questo modo di concepire la pena rappresenta una delle garanzie che il male non si ripeta. Il recupero al valore della vita, al rispetto delle regole della convivenza civile di una persona che ha commesso un reato, costituisce il cardine della tutela del bene comune e nello stesso tempo rappresenta la via per il riconoscimento delle ragioni e della domanda di giustizia delle vittime.

In questo senso bisogna superare una visione carcerocentrica della amministrazione della giustizia. Sappiamo bene come il carcere rappresenti anche un grande contenitore di povertà. Un concentrato dei mali delle periferie urbane dove la disperazione e l’abbandono sono terreno facile di derive sociali e serbatoi per la criminalità organizzata e per i nuovi fenomeni terroristici. Quando una persona varca la soglia del carcere vuol dire che siamo arrivati troppo tardi. Tutti: istituzioni, società civile, cittadini. Siamo di fronte a una sfida globale. Il rischio dell’imbarbarimento si nasconde dietro alla cultura dello scarto che induce le nostre società ad abbandonare a poco a poco i suoi figli più deboli.

Ma anche in situazioni di detenzione sono esasperazione e mancanza di alternative che continuano a giocare un ruolo decisivo per indurre a percorrere itinerari di ulteriore criminalizzazione. 

Per questo non è pensabile una riforma del sistema di esecuzione della pena senza un coinvolgimento delle comunità, intese come istituzioni del territorio, corpi intermedi, organizzazioni del terzo settore, società civile. È necessario un grande cambiamento culturale di cui devono farsi carico le istituzioni e tutte le componenti della società. 

In tale contesto la presenza e l’impegno del volontariato dentro le istituzioni carcerarie non ha una funzione aggiuntiva e tutto sommato poco incisiva, ma è indispensabile all’umanizzazione perché costituisce un’apertura dell’istituzione totale qual è il carcere, alla riconciliazione sociale e vi introduce il criterio della gratuità tanto prezioso per ristabilire spazi di umanità e per dare voce e futuro al desiderio di tanti detenuti che chiedono una occasione per ricominciare una nuova vita. 

Vorrei provare a dare qualche spunto di riflessione partendo dall’esperienza che le persone della Comunità di Sant’Egidio vivono in tante carceri del mondo, raccontando quello che non si vede di questo mondo così separato e così poco conosciuto. Sono consapevole che sono tanti gli aspetti che si possono affrontare.

Chi entra in carcere vive, al di là delle condizioni di detenzione, un processo di isolamento sociale. Questo processo inizia fin dall’ingresso soprattutto per coloro che  provengono da situazioni di povertà e di emarginazione o non hanno famiglia. Per queste persone varcare la porta del carcere vuol dire vivere in una condizione di isolamento sociale e di dipendenza totale dall’istituzione.

Ricevere una visita dall’esterno diventa il primo modo di rompere questa realtà di abbandono sociale. Il desiderio di chi vive in carcere di parlare con persone che non fanno parte dell’istituzione è enorme. Il colloquio diventa spesso l’unico filo di collegamento con il mondo al di là delle sbarre, un piccolo spazio di libertà almeno nell’espressione dei sentimenti, dei desideri, delle aspettative. Una relazione in cui non ci si sente giudicati. E’ anche l’occasione per chiedere quelle cose che si chiederebbero ai familiari che non si hanno o sono lontani. 

Purtroppo la presenza di volontari all’interno degli istituti penitenziari, nonostante sia prevista almeno dagli ordinamenti penitenziari più avanzati: è ancora troppo limitata o compressa solo in alcune ore della giornata. Sarebbe importante facilitarne e motivarne la presenza anche in considerazione dell’importanza di qualificare il tempo della detenzione (attività ricreative e di socializzazione, formazione etc.) ma anche dell’apertura del carcere al territorio e alla necessità dei detenuti di creare o ricreare legami con il mondo esterno. 

In ogni caso la presenza di liberi cittadini nella vita del carcere laddove le condizioni di detenzione siano intollerabili come avviene in molte carceri africane, costituisce un argine agli abusi e alle prevaricazioni. 

In questi paesi quando mancano il cibo e i generi di prima necessità ci troviamo a svolgere purtroppo anche un ruolo sostitutivo dell’istituzione carceraria. In nome del rapporto di vicinanza che si crea con i detenuti non si può fare a meno di porsi il problema delle loro condizioni di vita e della loro dignità come persone. Penso al problema dell’assenza di vestiario che a volte incontriamo anche qui in Italia. E’ un problema che l’istituzione raramente si assume e che in genere viene lasciato all’impegno dei cappellani ma che viceversa ha una grande importanza per il mantenimento della dignità. Negli ultimi anni ci siamo fatti promotori di distribuzioni di vestiario e di prodotti per l’igiene nelle carceri utilizzando in alcuni casi – per esempio in Italia - beni sequestrati dalle dogane e che sarebbero andati alla distruzione. 

Un aspetto poco conosciuto ma che non sfugge a chi frequenta il carcere è la solidarietà spontanea che di frequente vivono i detenuti nei confronti di altri detenuti in situazione di maggiore privazione di mezzi o di assenza di legami con il mondo esterno. E’ un aspetto della vita del carcere che ha, a mio avviso, un grande valore e sul quale si dovrebbe riflettere. C’è un desiderio di aiutare gli altri, di sentirsi utili che è un desiderio di riscatto, di dimostrare che si è ancora capaci di fare del bene. 

Mi colpisce sempre che in occasione di eventi catastrofici, penso adesso al recente terremoto che ha colpito il centro Italia, che i detenuti ci chiedono come possono concretamente esprimere la loro solidarietà. E’ un modo per riaffermare la loro partecipazione a ciò che succede nel mondo ma soprattutto un desiderio di contribuire ad alleviare le sofferenze degli altri. Un sentimento profondamente umano che spesso non trova la possibilità di esprimersi. La coscienza di aver fatto del male spesso pesa come un macigno nella vita di queste persone ma trova nella possibilità di fare del bene a qualcuno, un parziale sollievo. 

La Comunità tra le altre iniziative, da alcuni anni ha promosso un progetto di solidarietà a favore dei prigionieri in Africa. Proponiamo ai detenuti in Italia di aiutare i detenuti di alcune carceri africane dove la Comunità è presente che vivono condizioni di detenzione molto più gravi delle loro; offrendo anche un euro possono contribuire all’alimentazione carente o alle cure mediche. I detenuti rispondono generosamente creando anche dei piccoli gemellaggi. In Italia 18mila detenuti hanno partecipato alla raccolta di firme per la moratoria contro la pena di morte presentata alcuni anni fa dalla Comunità di Sant’Egidio alle Nazioni Unite. Sarebbe di grande valore anche ai fini della cosiddetta responsabilizzazione dei detenuti suscitare e sostenere iniziative simili di solidarietà interne ed esterne al carcere. 

Un altro aspetto disumanizzante della vita in carcere è l’ozio forzato in cui sono costretti a vivere la maggioranza delle persone recluse. Gran parte dei detenuti è in età lavorativa: molti non hanno particolari professionalità o per la giovane età o per le scarse possibilità di formazione avute nella vita da liberi. Solo una piccola parte di fatto è impegnata a rotazione in lavori all’interno del carcere. Il tempo della detenzione che dovrebbe essere dedicato alla risocializzazione diventa un tempo sprecato: inutile ma anche dannoso perché favorisce la passività quando non anche la disperazione. Si tratta di energie fisiche e di capacità di lavoro che potrebbero essere formate e utilizzate sia per il futuro reinserimento sociale ma anche per portare avanti attività produttive ospitate all’interno del carcere. In questo senso ci sono esperienze molto positive anche in Italia ma ancora troppo scarse. Andrebbe fatto un grande sforzo di coinvolgimento del mondo imprenditoriale perché vengano create opportunità di formazione e di lavoro per le persone che devono scontare una pena sia dentro che fuori il carcere: si tratta di snellire procedure, di creare incentivi, anche di stabilire nuovi vincoli che aiutino a superare le resistenze di carattere culturale che a volte accompagnano il tema del lavoro delle persone che stanno scontando una pena.

Anche in questo caso la Comunità sollecita le istituzioni all’avvio di iniziative di formazione e di avviamento al lavoro facendosi promotrice di progetti che vogliono essere un modello di apertura al mondo esterno e in particolare al mondo del lavoro. Ne cito solo una qui in Italia. In una Casa di Reclusione abbiamo aperto da due anni un laboratorio di iconografia, unica esperienza di questo genere sul territorio nazionale: i detenuti, alcuni dei quali sono in una situazione di particolare isolamento per il regime di detenzione restrittivo a cui sono sottoposti, predispongono le tavole su cui verranno dipinte icone secondo l’antica tradizione dell’iconografia orientale. Si tratta di una lavorazione artigianale complessa che, se eseguita a regola d’arte garantisce la qualità della pittura. Ci ha particolarmente colpito la grande adesione dei detenuti a questo progetto non solo per l’occasione di imparare una nuova abilità ma anche per il valore di riabilitazione che gli attribuiscono dovuta al fatto che si tratta di partecipare alla creazione di una immagine sacra davanti a cui altri pregheranno.  

A questo proposito vorrei dire qualcosa sul ruolo delle religioni in carcere. La popolazione carceraria è plurale, come sempre più plurali sono le nostre società, e lo saranno sempre di più. E’ un aspetto cui occorre prestare attenzione. Il patrimonio culturale e religioso, costituisce un bagaglio esistenziale o sociale fondamentale: può essere un presupposto per itinerari di integrazione e anche, nel nostro caso, di riabilitazione: sicuramente non un ostacolo. Anzi l’assenza di radicamento in un universo culturale o in un mondo religioso, come ha osservato recentemente in modo fine e acuto Olivier Roy , è alla base del nichilismo dei giovani che in Europa diventano terroristi. 

La libertà di culto in carcere quindi non è un aspetto aggiuntivo quasi una attività in più che va rispettata qualora ci siano le condizioni. C’è una domanda religiosa che spesso è anche superiore rispetto a quella che quelle stesse persone esprimono nella loro vita da liberi: il tempo di reclusione necessariamente porta ogni persona ad aprire una riflessione sulla propria vita, sulle proprie responsabilità. Possiamo dire che Dio lavora nell’animo di chi soffre aprendolo ad una domanda di senso. 

Questo è quello che noi raccogliamo quando offriamo ai detenuti la possibilità di riunirsi per pregare insieme. Colpisce sempre l’intensità nella partecipazione alla messa domenicale che purtroppo, per motivi di organizzazione della vita carceraria,  non è possibile a tutti regolarmente. 

A questi momenti di preghiera a volte chiedono in modo molto rispettoso di partecipare anche musulmani. In questa forte domanda religiosa c’è una istintiva disponibilità al dialogo e alla condivisione anche provenendo da credi diversi. Una sorta di ecumenismo dal  basso che spiega bene come nella sofferenza e nel bisogno si viva l’essenzialità della fede. Quando nel periodo di Quaresima accompagniamo i cappellani durante la benedizione delle celle scopriamo veri e propri altarini fatti con immaginette e rosari: i detenuti fanno benedire le foto dei loro familiari. E’ vissuto come un grande gesto di pace e di riconciliazione.

Questa domanda religiosa è forte anche per i musulmani e non rappresenta come qualche volta erroneamente si pensa un sintomo di radicalizzazione: da molti anni abbiamo notato che molti i detenuti provenienti da paesi di fede islamica durante il mese di Ramadan seguono le prescrizioni del digiuno e della preghiera. Per questo abbiamo proposto alle Direzioni di alcuni istituti di permetterci di animare la festa della fine del Ramadan consentendo l’ingresso di alcuni imam che condividono con la Comunità l’impegno per il dialogo e la pace. Laddove sono state facilitate queste iniziative hanno segnato molto positivamente il rapporto con i detenuti musulmani e la loro convivenza nel carcere.

Le religioni possono quindi dare un contributo significativo al cambiamento della cultura della pena e all’umanizzazione del carcere perché aprono ogni uomo alla ricerca del bene e della salvezza e perché, per i valori di cui sono intrinsecamente portatrici provocano le istituzioni terrene a tenere lo sguardo fisso sull’uomo e a credere nella forza storica dell’amore, del dialogo e della riconciliazione.

Questo Giubileo della misericordia forse è proprio il tempo opportuno, di portare avanti con decisione sistemi di sanzioni e di pene che sappiano farsi carico della necessità di riconciliazione e riparazione sociale, della rigenerazione della persona umana, della guarigione personale e collettiva di cui tutta la società ha bisogno. Purtroppo il tema dell’esecuzione delle pene è ancora troppo strumentalizzato: dietro agli slogan che invocano la certezza della pena spesso si nasconde infatti la falsa convinzione che la pena pubblica e in generale l’inasprimento delle pene possano risolvere problemi sociali complessi che richiedono viceversa scelte di politica sociale ed economica efficaci e lungimiranti. Quando anche non esprimono un malcelato spirito di vendetta o la ricerca di capri espiatori. 

Ma non si può tornare indietro. Lo dobbiamo fare per i nostri sistemi penitenziari e per chi li abita: è in gioco il livello di umanità delle nostre prigioni, ma soprattutto quello delle nostre società.