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Philip Pullella

Agenzia "Reuters"
 biografia

“La prima vittima di una guerra è la verità”.

 
Questa frase, attribuita al senatore Usa Hiram Johnson nel 1917, fu pronunciata per la prima volta 100 anni fa durante la prima guerra mondiale.
Venticinque anni dopo, durante la seconda guerra mondiale, Winston Churchill disse: “In tempo di guerra la verità è così preziosa che deve essere sempre protetta da una cortina di bugie”.
Queste due frasi, ognuna molto vera a suo tempo e nel suo contesto storico, forse non sono state mai più vere di oggi a causa dei grandi progressi nelle comunicazioni.
Nella prima guerra mondiale i corrispondenti usavano i piccioni, il telegrafo o lenti messaggeri per trasmettere i loro racconti all’esterno. Oggi usano comunicazioni satellitari e smartphones.
Ma mentre la tecnologia ha fatto notevoli cambiamenti, la verità – sebbene sia ancora l’obiettivo di corrispondenti di guerra onesti e indipendenti – è davvero ancora troppo spesso una vittima.
Questo è in parte dovuto al fatto che i social media hanno permesso a entrambe le parti in conflitto, particolarmente nei conflitti in aree complicate come il Medio Oriente, di bypassare le informazioni dei media rielaborate a posteriori e di darle direttamente al consumo del pubblico.
Lo Stato islamico può postare direttamente video di una decapitazione. Soltanto pochi anni fa, tali gruppi dovevano consegnare una videocassetta a una stazione televisiva – ve lo ricordate? erano grandi come un libro.
Ciò rende i corrispondenti che cercano la verità più necessari, ma allo stesso tempo sono aumentati i pericoli che essi affrontano, spesso rendendoli un bersaglio perché non sono voluti da nessuna delle due parti.
Il corrispondente di guerra è un tipo speciale, gente che ammiro, rispetto e ringrazio.
Non ho seguito nessuna guerra, ma ho conosciuto una quantità di giornalisti che le hanno seguite. Kurt Schork della Reuters fu ucciso in Sierra Leone nel 2000; un altro amico, David Blundy del London Sunday Times, fu ucciso in El Salvador nei primi anni Ottanta.
Una delle maggiori sfide che affrontano i corrispondenti di guerra – e molti di loro lo considerano un dovere – è riferire come le guerre tocchino la gente normale.
Shork, il corrispondente di guerra della Reuters che fu ucciso in Africa, divenne famoso in parte per la sua copertura delle guerre dei Balcani negli anni Novanta, e particolarmente per il suo racconto che passò alla storia del giornalismo come quello di Giulietta e Romeo di Sarajevo.
I loro nomi erano Boško Brkic e Admira Ismic. Avevano entrambi 25 anni. Lui era un bosniaco serbo ortodosso orientale e lei una bosniaca musulmana. Avevano fedi differenti – uno cristiana, l’altra musulmana – e così la loro storia si adatta molto bene a quello che si sta discutendo in questi giorni qui ad Assisi.
Furono uccisi dai cecchini nel 1993 mentre tentavano di attraversare il ponte di Vrbanja. Stavano tentando di fuggire insieme. I loro corpi giacquero là per giorni perché nessuno era in grado di recuperarli a causa del fuoco dei cecchini.
Sono sepolti insieme nel Cimitero del Leone di Sarajevo. Kurt fu ucciso sette anni dopo mentre raccontava un’altra guerra, questa volta in Sierra Leone. Fu cremato e, secondo i suoi desideri, metà delle sue ceneri furono sepolte vicino a quelle di Boško e Admira.
Come ho detto prima, i corrispondenti di guerra sono di un tipo speciale.
Una delle cose che sembrano tenerli insieme è il desiderio di raccontare la verità, perfino se questo significa rischiare la propria vita.
E poi c’è anche la componente adrenalinica.
Può sembrare perverso, ma alcuni corrispondenti si sentono su di giri nel seguire guerre o nel trovarsi in aree pericolose. Oltre a questo, qualunque altra cosa sembra loro noiosa: campagne politiche, affari, cultura. Sono spesso le prime persone che alzano la mano quando c’è bisogno di seguire i conflitti.
Ma senza di loro il mondo sarebbe ignorante di ciò che avviene veramente.
Jeremy Bowen della BBC, che ha seguito molte guerre, e che, secondo me, è oggi uno dei migliori corrispondenti televisivi del mondo, due anni fa ha scritto sulla Siria quanto segue:
(citazione) “La maggioranza dei giornalisti che rischia regolarmente la propria vita per fare il proprio lavoro non è avventata. Non vogliono morire. Potrebbero dire che nessuna storia è degna della loro vita. Ma potrebbero aggiungere che stai ponendo la domanda sbagliata perché non stanno andando a morire oggi.
I giornalisti di guerra di solito possono trovare ragioni per predire perché sopravvivranno davanti ai loro colleghi più impulsivi.
In ogni guerra, se sei nel posto sbagliato al momento sbagliato, sei morto. Tutti quelli che conosco che fanno questo particolare tipo di giornalismo hanno un’intera lista di storie incomplete” (fine della citazione).
Qualcuno potrebbe dire che le persone sono matte a fare questo tipo di lavoro. Perché lo fanno?
Lascerò a Jeremy Bowen la risposta, con le parole tratte dallo stesso articolo che scrisse nel 2014
(citazione): “Volevo riferire le cose peggiori che stavano accadendo nel mondo. Mi piaceva essere un testimone, di quelli che talvolta sembravano essere importanti eventi storici. Ma la frenesia non passava mai. Mi piaceva vivere sul limite” (fine della citazione).
Vivere sul limite significa rischiare la tua vita e tutti i buoni corrispondenti di guerra lo sanno. Sto parlando dei corrispondenti che vanno in zone di conflitto e cercano di avvicinarsi alla linea del fronte e alla gente, non di quelli che scrivono delle guerre dai loro comodi hotel.
Nel 2011 Rosie Garthwaite scrisse un libro intitolato “Come evitare di essere uccisi in una zona di guerra”. E molti dei suoi consigli venivano da giornalisti.
Una delle cose interessanti da cui mette in guardia è il pericolo della sensazione che provano i corrispondenti di guerra navigati di essere invulnerabili – siccome hanno così tanta esperienza – e così di sfidare sempre la morte.
Rageh Ommar, ora ad Al Jazeera e precedentemente alla BBC, scrive nell’introduzione di questo libro: (citazione) “La lista dei corrispondenti professionisti di grande esperienza che sono stati uccisi mentre svolgevano il loro incarico è altrettanto tragicamente lunga di quella dei giovani giornalisti senza esperienze che vanno in zone di guerra alla ricerca di uno stacco nel reportage delle notizie dall’estero. Per i corrispondenti di guerra il prossimo incarico è sempre il primo incarico” (fine della citazione).
Una quantità di intrepidi è stata rapita.
Uno dei più noti è James Foley, che nel 2014 divenne il primo cittadino americano ucciso dallo Stato Islamico. Fu rapito nel nord-ovest della Siria insieme ad altri e fu successivamente decapitato.
I gruppi terroristici raccolgono grandi quantità di denaro da rapimenti e riscatti. Nel caso di Foley, a quanto si dice, chiesero 100 milioni di euro alla sua famiglia e ai suoi datori di lavoro. Il governo degli Stati Uniti rifiutò di pagare, secondo me, giustamente.
Dopo la morte di Foley, Stephen Kizner, un ex corrispondente di guerra del New York Times, scrisse che il governo degli Stati Uniti aveva avuto ragione a non pagare il riscatto perché ciò avrebbe causato più rapimenti in futuro. 
Kizner scrisse che, se il governo avesse pagato il riscatto per i giornalisti rapiti in guerra, (citazione) “ciò mi avrebbe fatto avere paura di dedicarmi ad alcune delle mie corrispondenze dal Medio Oriente. Avrei sentito che chiunque avesse pagato quel riscatto avrebbe sostanzialmente disegnato un bersaglio sulla mia schiena. Ora posso almeno sperare che in qualche nascondiglio nel deserto, le organizzazioni terroristiche stiano calcolando che non conviene rapire americani perché gli americani non pagheranno il riscatto” (fine della citazione).
Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, fino a oggi 16 giornalisti sono stati uccisi, di cui molti in zone di guerra. Costoro non sono stati uccisi mentre seguivano uno scontro o in un incidente, ma presi di mira perché davano fastidio a quelli che li volevano togliere di mezzo.
Ho trattato fino ad adesso soprattutto della carta stampata, ma ora voglio volgermi all’altro lato della corrispondenza di guerra, la fotografia, perché la macchina fotografica può spesso raccontare una storia meglio delle parole e perfino di un film.
Fu la guerra del Vietnam a portare velocemente per la prima volta gli orrori del conflitto a casa del pubblico, quando divenne più veloce la trasmissione di immagini attraverso il mondo.
Tutti noi possiamo ricordare quella famosa foto del 1972 di bambini piangenti, compresa la ragazza nuda, che scappavano da un attacco al napalm in Vietnam.  
Quella è una delle più potenti immagini mai mostrate di quello che fa la guerra alle persone comuni. Come ha detto l’autore e giornalista americano Pete Hamill, la cosa che i fotografi in Vietnam stavano cercando e che li interessava maggiormente era (citazione): “la verità, l’inafferrabile, frustrante verità” (fine della citazione).
È trascorso del tempo dall’era della guerra del Vietnam, ma sfortunatamente non molto è cambiato per quanto riguarda le vittime civili – sia dirette che indirette – della guerra.
Un anno fa, nel settembre del 2015, la foto di Alan Kurdi, il bambino siriano di due anni il cui corpo fu trovato su una spiaggia in Turchia, fece il giro del mondo subito dopo che fu scattata. Tutti lo ricordiamo. Come ha detto il New York Times in un editoriale, ciò ha messo un volto umano sulla crisi dei rifugiati.
Questo è anche vero per le immagini della causa ultima della crisi dei rifugiati – la guerra – in questo caso la guerra in Siria.
Recentemente Sebastian Junger, autore di “La tempesta perfetta” e che ha seguito la guerra in Afghanistan, ha scritto un articolo per la rivista Vanity Fair, dicendo che i fotografi di guerra sono importanti ora più che mai.
Ha scritto (citazione): “ In un tempo in cui le immagini di disumanità ci sommergono – e la gente di tutto il mondo gira con la fotocamera nel cellulare – il ruolo del fotografo di guerra può sembrare obsoleto. Ma non è così. I conflitti di oggi chiedono cronisti esperti per registrare una verità sfaccettata e per rispondere alla distorsione dilagante e alla propaganda dell’Era Digitale” (fine della citazione).
Queste immagini possono scioccare, devono scioccare.
In conclusione, forse scioccare è il fine ultimo di tutte le corrispondenze di guerra, sia che si tratti di giornali, televisione o fotografia. Scioccare le persone perché facciano qualcosa per far finire le guerre, per forzarci a scendere dai nostri divani e a uscire dal nostro ambiente sicuro.
Il fine ultimo della corrispondenza di guerra dovrebbe essere aiutarci a combattere contro la cosiddetta “fatica emozionale” che può facilmente derivare dall’abbondanza di cattive notizie. La fatica emozionale che ci rende più facile spegnere la TV, voltare la pagina di una rivista o di un giornale, andare semplicemente avanti con la nostra vita quotidiana e non fare entrare la realtà di così tanta gente sofferente.
Senza i corrispondenti di guerra, le troupe televisive, i fotografi di guerra, rimarremmo ignoranti di che cosa sta realmente accadendo e, ancora più importante, ignoranti della consapevolezza che tutti noi abbiamo il dovere di ricercare la verità.