11 Settembre 2017 09:30 | Petrikirche

Intervento di Ian Campbell



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Ian Campbell

Università di Addis Abeba, Etiopia
 biografia
Abstract
 
Il martirio è stato un fenomeno significativo per i cristiani in Etiopia durante il 20° secolo, ma il tema centrale di questa breve presentazione è la memoria e la realtà del martirio durante l’episodio più noto di questo secolo: la brutale invasione ed occupazione dell’Etiopia da parte dell’esercito del Regno d’Italia dal 1935 al 1941, che ispirò Hitler, esautorò la Lega della Nazioni e innescò la catena di eventi che culminò nella Seconda Guerra mondiale. Discuterò di questa memoria in termini di narrazione popolare, e vi opporrò i risultati della mia ricerca nella realtà – ricerca condotta tra il 1991 e il 2016. Farò seguire una mia valutazione delle spinte che guidarono le azioni che portarono al martirio del cristianesimo Etiope, e i miei suggerimenti in merito a quanto questo possa insegnare per evitare avvenimenti simili in futuro.
 
 
 
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Il tema centrale di questa presentazione è la memoria e la realtà del martirio durante l’invasione e l’occupazione dell’Etiopia da parte dell’esercito del Regno d’Italia dal 1935 al 1941, che innescò la catena di eventi che culminò nella Seconda Guerra mondiale. 
 
La realtà di quanto avvenne durante quell’episodio oscuro si staglia potentemente nella memoria collettiva degli Etiopi, ma è anche sconosciuto fuori dall’Etiopia. Nonostante gli eccessi del regime nazista, riconosciuti e affrontati, e che sono stati sottoposti ad anni di analisi critica, dialogo aperto e dibattito, gli eccessi del governo di Mussolini nella sua ricerca di espansione attraverso la conquista di stati-nazione più deboli – in particolare l’Etiopia, l’Albania, la Grecia e la Jugoslavia – non sono mai stati sottoposti a valutazione pubblica, e neppure, in molti casi, riconosciuti. Invece, la “memoria” fuori dall’Etiopia consiste largamente nel mito post-bellico che il governo fascista fosse amabile, cordiale, e persino spiritoso. Perciò non è sorprendente che poco sia conosciuto oggi della realtà.   
 
Nella prima metà del 4° secolo, l’Etiopia divenne il secondo paese al mondo dopo l’Armenia ad adottare il Cristianesimo come religione di stato – anche prima della Chiesa di Roma. L’Etiopia fu anche la prima nazione del mondo a dipingere la croce cristiana sulle sue monete. La Chiesa etiope così incorpora le tradizioni che risalgono alla prima chiesa cristiana, di cui una delle principali era l’istituzione del monachesimo radicato nella tradizione di Pacomio. A partire dal Medioevo, molti monaci etiopi lavorarono come studiosi e teologi nei grandi centri religiosi di Alessandria, Gerusalemme e Roma. Accogliendo il clero straniero come pari, essi erano a loro volta, accolti in modo simile dai loro ospiti. 
 
Per menzionare soltanto un esempio della cerchia del clero Etiope che lavorava vicino alla Chiesa di Roma, il teologo Tesfa Seyon di Debre Libanos – uno dei tanti monaci di Debre Libanos ad essere assegnato alla Santa Sede – divenne un confidente di Papa Paolo III, e fu responsabile di molti lavori pionieristici di portata ecclesiale e letteraria, compresa la prima traduzione in Etiope del Nuovo Testamento, pubblicata in due volumi nel 1548-49, un progetto sponsorizzato sia dal Papa sia dall’Imperatore etiope Claudio. Tesfa Seyon, che divenne Abate del Monastero di Santo Stefano a Roma, conobbe Ignazio di Loyola, il fondatore del Gesuiti, e divenne intimo amico di Filippo Archinto, il vicario generale di Roma, con il quale è ritratto in un dipinto nella chiesa madre dei Gesuiti, la Chiesa del Gesù a Roma. Tesfa Seyon di Debre Libanos fu anche uno dei fondatori della chiesa di stato del Regno d’Italia, Santa Maria degli Angeli, e in questa veste è rappresentato insieme a papa Pio IV e all’imperatore romano cristiano, Carlo V, in un dipinto del XVI secolo in quella chiesa. E’ perciò quasi incomprensibile che l’intero clero e la congregazione del monastero di Debre Libanos, ben noto e rispettato dalla Santa Sede per secoli, nella nostra epoca ritenuta civile siano stati massacrati a sangue freddo, diventando in tal modo martiri cristiani, per gli ignobili ordini di comandanti che agivano sotto la bandiera dello stesso regno cristiano.
 
Nell’ottobre 1935, l’Etiopia fu il primo stato sovrano ad essere invaso dall’Italia sotto il governo di Mussolini, in cerca di espansione attraverso conquiste all’estero, con l’intenzione documentata di smantellare lo stato, trasformando il paese in un complesso militare e industriale, utilizzando i depositi di minerali che si riteneva vi esistessero, e reclutando i suoi uomini in un forte esercito di un milione di persone per combattere nuove guerre di conquista. 
 
Nonostante la mancanza di addestramento militare e di armamenti moderni, ogni qualvolta le armate etiopi riuscirono a opporre una seria resistenza, gli italiani li batterono usando armi chimiche portate dall’aria; in questo modo centinaia di migliaia di Etiopi – soprattutto dagli altopiani cristiani – morirono nella brutale invasione “senza prigionieri”. E quando gli invasori incontrarono l’ostilità dei civili o il risentimento verso di loro, risposero con una forma di “contro-insurrezione” che consisteva in quella che oggi gli studiosi chiamano “repressione esemplare”: uccisioni e distruzioni con fuoco e a fil di spada tra i civili per dissuadere altri dal sostenere la resistenza. I metodi sviluppati in Etiopia sarebbero stati usati negli altri paesi invasi dall’Italia – in particolare in Jugoslavia, dove i comandanti militari erano spesso gli stessi generali che avevano affinato le loro tecniche in Etiopia. E gli stessi metodi sarebbero stati seguiti dai nazisti in Polonia e in Russia. 
 
Il “regno del terrore”, esplicitamente prescritto per l’Etiopia a metà del 1936 da Mussolini, che il maresciallo Rodolfo Graziani applicò con entusiasmo, consistette ampiamente in rappresaglie di massa per oltraggi reali o immaginari contro l’esercito invasore. Molte atrocità erano perpetrate contro individui, comprese decapitazioni e persone scuoiate vive, mentre il più popolare era mandare a fuoco le famiglie nelle loro case. Ma i metodi comprendevano anche atrocità su larga scala come (i) il massacro di Addis Abeba, nel quale circa 20.000 uomini, donne e bambini disarmati furono macellati in un’orgia di distruzione e depravazione ordinata dal Partito fascista, guidato dalle Camicie nere, e condannata dall’ambasciatore americano come paragonabile a quel tempo soltanto al massacro degli Armeni; (ii) l’uccisione dei giovani Etiopi - un pogrom ordinato da Graziani e attuato dai carabinieri e dall’esercito regolare, in cui una generazione di Etiopi colti fu decimata soltanto perché erano degli intellettuali; e (iii) il  massacro di Gogetti, un villaggio in cui Mussolini ordinò personalmente l’esecuzione di ogni maschio sopra i 16 anni. 
 
Le atrocità nella seconda metà del 1936 e nella prima metà del 1937 furono concentrate soprattutto nei pogrom contro il clero della Chiesa Etiope, che era stato pubblicamente denunciato da diversi componenti anziani del clero italiano come “scismatici” e “di ostacolo” per il futuro della Chiesa romana in Etiopia. La Chiesa etiope era anche percepita dagli invasori come una minaccia, che propagava lo spirito della nazione. 
 
La persecuzione della Chiesa Etiope fu concentrata particolarmente nel primo monastero di Etiopia: il monastero del XIII secolo di Debre Libanos, che nei secoli aveva prodotto alcuni dei più illustri teologi di Etiopia, tra cui, come abbiamo visto, uno dei fondatori della chiesa ufficiale in Italia. In realtà, nonostante il lungo legame e il rispetto reciproco tra Debre Libanos e il Vaticano, una delle prime e più evidenti atrocità contro la Chiesa etiope fu l’esecuzione di Abuna (Vescovo) Petros, reverendissimo e giusto santo padre di Debre Libanos che si rifiutò di collaborare con il quartier generale italiano di Addis Abeba. Rifiutando di ritirare la sua condanna dell’invasione e delle atrocità che a questa si accompagnavano, chiese: “Come potrei guardare il mio Dio se non condanno un crimine così grande?” Colpito da una raffica di mitragliatrice, pubblicamente, mentre reggeva ancora la croce in segno di benedizione, divenne uno dei primi martiri cristiani ufficiali dell’occupazione italiana. 
 
Il massacro di Debre Libanos fu un atto deliberato su larga scala di repressione esemplare; la “memoria”, come distillata e documentata dagli storici a partire dai frammentari comunicati italiani, raccontava che circa 450 prelati vennero uccisi. Questa fu a lungo la narrazione popolare, ma ricerche approfondite condotte a livello locale negli anni ’90 hanno stabilito che in realtà il bilancio delle vittime fu di circa 2.000 monaci, preti, diaconi e pellegrini cristiani. 
 
Il Monastero di Debre Libanos era stato fondato da S. Tekle Haymanot, come molti monasteri “figli” e chiese che hanno attraversato i secoli; questo grande massacro fu seguito da una persecuzione in tutto il paese della Casa di Tekle Haymanot – una serie di massacri in cui vari altri antichi monasteri furono distrutti e i loro monaci passati a fil di spada. 
 
La domanda per il nostro panel questa mattina è: Come gli italiani invasori – la maggior parte dei quali non aveva mai ucciso una persona in vita sua prima di arrivare in Etiopia – hanno potuto arrivare ad un tale livello di barbarie e ad un comportamento così vergognoso, e su scala così vasta? C’erano vari fattori in atto, tra cui un decennio di demonizzazione degli Etiopi da parte del governo di Mussolini, e la certezza che i soldati non sarebbero stati puniti per le loro azioni. Ma soprattutto gli invasori erano imbevuti di un enorme senso di missione. Quasi tutti (il 99%) degli Italiani erano cattolici, e alcuni dei membri più anziani del clero italiano erano aperti sostenitori dell’invasione, facendo dichiarazioni pubbliche per convincere le truppe che stavano svolgendo l’opera di Dio, e persino cedendo i loro oggetti sacri d’oro da fondere per finanziare l’invasione. I soldati furono informati ripetutamente che l’invasione dell’Etiopia era una crociata, e lo diventò davvero: una replica della crociata medievale con la stessa esaltante miscela di arroganza, coraggio, idealismo, crudeltà e avidità. E per rafforzare il messaggio ancora di più, venivano prodotte migliaia di cartoline che mostravano Gesù o la Vergine Maria che sovrastavano le truppe per guidarle in Etiopia – rassicurandole ancora che l’invasione aveva la benedizione della Chiesa cattolica, e che questa era davvero la volontà di Dio. In conclusione, alcuni prelati anziani dimenticarono i propri voti e usarono la propria religione per fini nazionalistici e politici. 
 
Il Vaticano e il governo di Mussolini si erano impegnati in una sorta di “non-santa” alleanza, e il Fascismo si era appropriato di molta dell’iconografia della chiesa cattolica, e persino delle sue preghiere. Perciò non stupisce che il Partito distribuisse cartoline illustrate con immagini notevolmente simili a quelle distribuite dalla Chiesa, raffiguranti figure simboliche come Minerva, l’antica dea romana della guerra esaltata durante il Fascismo italiano. Altre mostravano la Madre Italiana, ritratta come Magna Mater, una divinità pagana che si credeva proteggesse le città, indossando una corona turrita che simboleggiava Roma. Portata in volo sopra le Camicie nere che avanzavano, queste divinità le guidavano verso il loro provvidenziale destino. Insomma, il Fascismo mascherato da religione. 
 
Il pericolo mix di religione e politica ebbe il risultato auspicato; le truppe di invasione vennero, in effetti, trasformate. Non possiamo chiudere il libro dei loro misfatti liquidandole come mostri cattivi. La verità è più spaventosa: erano gente normale, come noi. Questa è la più grande, unica lezione dei martiri di Etiopia. Sia i comandanti sia i soldati erano preparati a fare qualsiasi cosa ritenessero fosse necessaria per stabilire il “regno del terrore” e “la distruzione di tutto”, come ordinato, e con l’evidente approvazione dell’Onnipotente. Le loro coscienze erano a posto. Questo sicuramente spiega perché nelle fotografie di atrocità indicibili, loro e i loro comandanti erano sorridenti e contenti, come scolari in gita. 
 
Per quelli di noi che sono troppo giovani per ricordare questi terribili eventi, vale la pena ricordare che non accaddero nelle nebbie dell’antichità; sono avvenuti a memoria d’uomo. Tre esempi aiutano a capire: Prima di tutto, negli ultimi 25 anni io stesso ho personalmente intervistato molti testimoni oculari di queste atrocità. In secondo luogo, la canonizzazione del martire santo Abuna Petros, e l’edificazione di una chiesa al suo nome, hanno avuto luogo molto di recente, nel 2009, sotto il pontificato dell’ultimo Abuna Paulos, Patriarca della Chiesa Ortodossa etiope, che mi ha assistito nella mia ricerca e che, come campione del dialogo interreligioso, era un grande sostenitore della Comunità di Sant’Egidio. E in terzo luogo, un altro dei molti martiri etiopi dell’occupazione italiana, Simi’on Adefris, un giovane devoto cattolico che patì una morte terribile nelle camere di tortura di Graziani per aver resistito all’occupazione di questo paese, era lo zio del Cardinale Berhaneyesus, oggi arcivescovo della Chiesa Cattolica Etiope. Chiaramente, le memorie e l’impatto dell’invasione italiana di Etiopia sono presenti ancor oggi. 
 
Divenendo chiare le forze che hanno portato alla morte dei martiri cristiani di Etiopia, le lezioni apprese per il domani sono evidenti. Dobbiamo condannare quelli che usano in modo improprio la religione per scopi politici, proprio come dobbiamo stare in guardia contro quelli che mascherano la politica come religione. A quelli che sono in una posizione che può essere ascoltata dovrebbero alzare la propria voce prima che il male trionfi. 
 
Se queste lezioni possono essere prese a cuore, e di conseguenza i progressi fatti nello spirito di Sant’Egidio per assicurare che questi orrori non accadano mai più, allora i martiri di Etiopia non saranno morti invano.