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Kurt Koch

Cardinal, President of the Dicastery for Promoting Christian Unity, Holy See
 biography

La missione di tutti i cristiani nella società odierna, anche e precisamente là dove la piena unità non è stata ancora raggiunta, consiste principalmente nello sforzo di rendere più chiare le grandi linee etiche che contribuiscono alla coesistenza umana e, dunque, nell’attenzione speciale da rivolgere ai poveri, da una parte, e nello sforzo di testimoniare Dio in un mondo che ha difficoltà a trovarlo, dall’altra. Per la fede cristiana, si tratta delle due facce della stessa medaglia.

Nella Sacra Scrittura, Dio si rivela come un Dio morale, che chiede giustizia per tutti gli uomini. Nella visione biblica, la comunione degli uomini con Dio non può realizzarsi senza che vi sia una comunità umana regolata dal diritto e dalla giustizia. Nella Sacra Scrittura, per tutte le relazioni umane, sia per quelle tra l’uomo e Dio che per quelle tra gli uomini, nessun altro concetto ha un’importanza così centrale come la zedaka, la giustizia. Nei comandamenti etici che dà al suo popolo, il Dio biblico, la cui santità significa anche moralità, rivela dunque se stesso. In particolare, il Decalogo veterotestamentario non soltanto contiene ciò che Dio chiede agli uomini di fare, ma è anche e soprattutto la rivelazione di chi è Dio. I valori etici contenuti nei comandamenti fondamentali, come ha osservato Papa Benedetto XVI in una delle sue prime pubblicazioni, sono “riflessi di Dio”: “Chi è il Dio della Bibbia può essere letto precisamente in essi”.

Ma ciò non basta. Essendo il Dio biblico che si rivela un Dio morale, egli è anche un Dio di parte. Poiché Dio vuole fortemente la giustizia tra gli uomini in modo sempre concreto, e ciò avviene in un mondo dominato dall’ingiustizia, dalla sofferenza e dalla povertà, l’amore di Dio per la giustizia in tali situazioni assume la forma concreta di una predilezione per i poveri e per gli afflitti. Naturalmente tutti gli uomini sono uguali per Dio; tuttavia, è proprio per questo che, in un certo senso, i disuguali, che non hanno ricevuto niente dalla vita e soffrono a causa della loro povertà, sono per lui ancora più uguali degli uguali. Dio si rivela non soltanto come un Dio che ama tutti gli uomini, ma anche come un Dio che ha una speciale predilezione per tutti coloro che devono vivere nella povertà e nella miseria, nell’oppressione e nella sofferenza.

L’intero messaggio biblico è percorso, come da un filo conduttore, dal concetto di un Dio di parte che si manifesta con speciale pregnanza già nel terzo capitolo del Libro dell’Esodo, dove il Signore dice: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze” (Es 3,7). Poiché nel linguaggio ebraico la parola “conoscere” viene usata anche per la relazione sessuale tra uomo e donna, il brano sopra menzionato dovrebbe essere tradotto in modo più preciso, sottolineando il fatto che Dio ha acquisito una particolare intimità con la sofferenza del suo popolo e con esso Egli si identifica pienamente.

Lo stesso messaggio lo incontriamo nuovamente in Matteo, nel Vangelo del giudizio universale, in uno straordinario approfondimento cristologico. L’aspetto eccezionale di questo messaggio consiste nel fatto che Gesù non solo è solidale con i poveri e gli afflitti, con coloro che hanno fame e sete, con coloro che sono nudi e incarcerati, ma si identifica addirittura con essi: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Gesù fa dunque capire in modo inequivocabile che egli si cela, nel nostro mondo, in tutti gli uomini che soffrono e sono bisognosi. Come Gesù, durante la sua vita terrena, ha preso le difese del partito dei poveri e dei derelitti, dando per loro la sua vita fino alla croce, così anche adesso, come il Signore Risorto, sta dalla loro parte e si identifica con i più piccoli. Pertanto, il povero nel nostro mondo è il luogo privilegiato della presenza del Cristo innalzato, è l’accesso favorito a Cristo e la sua misteriosa, ma molto reale, epifania. A tal proposito, il grande teologo cattolico Hans Urs von Balthasar ha parlato giustamente di un “sacramento del fratello” – e naturalmente anche della sorella –, interpretando così questo sacramento pubblico: il fratello diventa il “portatore della parola che mi rivolge Dio, il sacramento della Parola di Dio a me indirizzata. Questo sacramento si offre nella quotidianità, non nello spazio della chiesa. Nel colloquio, non durante la predica. Non nella preghiera e nella meditazione, ma là dove… si decide se io nella preghiera ho davvero ascoltato la Parola di Dio”.

Se prendiamo sul serio questa sfida, noi cristiani non abbiamo bisogno in realtà di orientarci verso un’opzione privilegiata per i poveri. Ci basterà optare per il Dio che si rivela nella Bibbia, radicandoci nel mistero divino, e l’opzione per i poveri s’imporrà da sola. Questo concetto di un Dio di parte, che è già presente nell’Antico Testamento e che trova la sua massima espressione cristologica nel Nuovo Testamento, deve essere pertanto il quadro di riferimento dell’agire diaconale delle Chiese e delle Comunità ecclesiali cristiane, un agire diaconale che, nella società odierna, possiamo compiere soltanto nella comunione ecumenica.

L’ecumenismo cristiano può però testimoniare in maniera credibile l’opzione privilegiata per i poveri nel mondo soltanto se si dimostra alla sua altezza innanzitutto all’interno del proprio spazio vitale. Il fatto che la comunità è il luogo principale nel quale può operare l’amore di Dio verso i battezzati è stato sottolineato da Paolo nella sua Lettera ai Galati con le seguenti parole: “operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede” (Gal 6,10). Ci sono oggi motivi a sufficienza per prendere a cuore questo ammaestramento. Di fatti, nel mondo odierno la fede cristiana è la religione più perseguitata. L’ottanta per cento di coloro che sono perseguitati a causa della propria fede sono cristiani, come osserva l’Internationale Gesellschaft für Menschenrechte (Organizzazione Internazionale per i Diritti Umani): “Se prendiamo come criterio gli standard internazionali dei diritti umani, la situazione di questi cristiani è spesso una vera catastrofe. Un disastro a cui tutti gli interessati si sono abituati e di cui la nostra società secolarizzata prende atto, se mai lo fa, soltanto quando eventi eccezionalmente forti fanno sì che ondate di rifugiati si riversino nel mondo”.

Questo bilancio sconcertante non soltanto rappresenta una grande sfida per l’ecumenismo cristiano, chiamato a manifestare una reale solidarietà. Poiché oggi tutte le Chiese e le Comunità ecclesiali cristiane hanno i loro martiri, dobbiamo parlare di un vero e proprio ecumenismo dei martiri, che racchiude in sé una bella promessa: nonostante il dramma delle divisioni tra le Chiese, questi saldi testimoni della fede hanno mostrato che Dio stesso mantiene tra i battezzati la comunione di fede testimoniata con il sacrificio supremo della vita ad un livello più profondo. Mentre noi, come cristiani e come Chiese, viviamo su questa terra in una comunione ancora imperfetta, i martiri nella gloria celeste si trovano fin da ora in una comunione piena e perfetta. I martiri, come Papa Giovanni Paolo II ha espresso in modo pregnante, sono dunque “la prova più significativa che ogni elemento di divisione può essere trasceso e superato nel dono totale di sé alla causa del Vangelo” .

Nell’ecumenismo dei martiri trova oggi rinnovata conferma ciò che credeva il grande dottore della Chiesa Tertulliano, ovvero che il sangue dei martiri è il seme della Chiesa. Anche oggi, come cristiani, dobbiamo vivere nella speranza che il sangue dei martiri del nostro tempo diventi un giorno il seme dell’unità piena del Corpo di Cristo. Ma questa speranza la dobbiamo testimoniare in maniera credibile nell’aiuto efficace reso ai cristiani perseguitati nel mondo, denunciando pubblicamente le situazioni di martirio ed impegnandoci a favore del rispetto della libertà religiosa e della dignità umana. In ciò va ravvisata una pressante responsabilità kairologica dei cristiani, che deve essere assunta ecumenicamente. L’ecumenismo dei martiri, dunque, non costituisce soltanto il nucleo della spiritualità ecumenica, oggi così necessaria, ma è anche la migliore esemplificazione di quanto la promozione dell’unità dei cristiani e l’amore privilegiato per i poveri siano assolutamente indissociabili.