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Joachim Gnilka

Catholic theologian, Germany
 biography

La parola giustizia evoca alla memoria le definizioni e le concezioni della giustizia che sono state sviluppate in filosofia. La più nota è probabilmente la definizione "suum cuique tribuere", "dare a ciascuno il suo". Il problema sta nella determinazione precisa di che cosa si debba intendere per "il suo". Oppure si pensi alla formula di D. Hume, secondo cui la giustizia è "the greatest happiness of the greatest number". Oppure si parla in modo totalmente astratto della giustizia come il principio formale, che rende accessibile il diritto a tutti gli uomini.
Se consideriamo il Nuovo Testamento - il nostro tema – dobbiamo constatare fin dall'inizio una duplicità. Nel Nuovo Testamento i discorsi sulla giustizia tengono sempre presente il rapporto dell'uomo con Dio. E questo riguarda in primo luogo l'uomo particolare nella sua individualità, nella sua relazione, vita e opera personale. Ciò non vuol dire che ciò che il Nuovo Testamento dice a proposito della giustizia non ha importanza per la comunità, per la società, perfino per lo Stato. Ma dal Nuovo Testamento non si può sviluppare un particolare sistema o una dottrina sistematica; si possono però trarre principi, orientamenti di base che possono e devono influenzare positivamente la collettività.
La particolarità nella dottrina neotestamentaria sulla giustizia è esplicitata chiaramente nella formulazione, un po' azzardata: la giustizia per il Nuovo Testamento è il perdono dei peccati. L'uomo neotestamentario, il cristiano, si sforza di essere giusto davanti a Dio, di essere riconosciuto da Dio come un giusto. Questa era già la coscienza dell'ebreo. L'apostolo Paolo ce lo ha trasmesso. In ultima analisi, ciò significa che posso esistere con la mia vita nel regno di Dio - il concetto “giustizia“ deriva infatti dalla parola che proviene dall'oltre - che la mia vita nel suo complesso riesce, o che se rimane frammentaria, mi viene donato il perdono.
Il perdono  dei peccati ci è donato per mezzo di Gesù Cristo. Una vita riuscita è una vita che ha questa possibilità. La possibilità ci è data mediante la fede in lui. Per lui, nella sua croce, si è manifestata la giustizia di Dio (”Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti “(Rm,3,21).
Per lui, con lo sguardo a lui, alla sua parola, al suo esempio, dobbiamo costruire la nostra vita e possiamo vivere una vita giusta, attraverso la fede, sola fide. “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio.  (2 Cor 5,21)

La fede, che conduce alla giustizia, è prima  di tutto fidarsi, proprio come i malati che si affidavano fiduciosi  a Gesù e furono  guariti . Ma c’è di più. È la fede incrollabile nel profondo, la fede in Gesù, il Cristo, il figlio di Dio, nella sua croce e  nella sua resurrezione, fede nella vita eterna. Ed è fede che si afferma nella vita e nella morte, e che dà testimonianza ( Massimiliano  Kolbe, Madre Teresa ).
Come la giustizia di Dio è perdono dei peccati o ne ha tale obiettivo, così la giustizia esercitata dai credenti nel Cristo, per il Nuovo Testamento, consiste nel fatto che essi condividano ciò che hanno ricevuto. La giustizia si afferma e si mostra nell’amore.  Così coloro che hanno ricevuto il perdono devono  anche perdonare. Così coloro che sono stati accolti, devono essere pronti ad  accogliere gli altri, soprattutto gli  esclusi , quelli che stanno ai margini della società, i declassati, gli abbandonati. Ne consegue logicamente che il comandamento dell’amore ci è dato quale comandamento centrale del Nuovo Testamento, quale criterio dell’ azione morale, quale  fondamento dell’etica. “chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso” dice Paolo  in  Rm, 13,8s.
Gesù riassume il suo insegnamento morale  nel duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo (Mc. 12,29-31). Cioè  egli  fa questo,  unisce il comandamento dell’amore di Dio , che attraverso lo “Schema Israel”  (Dt. 6, 4s) possiede in Israele un’importanza assolutamente centrale (anche nel culto del tempio), con un comandamento presente in  posizione casuale in Levitico 19,18.
 Secondo Mt 22,40 da questo doppio comandamento dipendono tutta la legge e i profeti. Si discute, se nel giudaismo ci siano, comparativamente,  dei paralleli ( Test Issachar 5,2 ; Filone di Alessandria, De virtutibus 51,95, eleva la filantropia e la giustizia da un lato e il culto a Dio e la devozione dall’altro ad insegnamenti fondamentali del comportamento morale).
La domanda su chi sia il prossimo è stata fonte di dibattito. Ne fa parte anche lo straniero che vive nel paese ( il residente che proviene dall’immigrazione)? La risposta di Gesù si trova nella parabola del buon Samaritano ( Lc.10, 30-35). Il prossimo è colui che giace lungo il mio cammino e dipende dal mio aiuto, a prescindere dal suo stato e dalla sua appartenenza culturale  e sociale.
S. Kirkegaard  ha frainteso il comandamento dell’amore per il prossimo. Lui traduce: “ Tu devi amare il tuo prossimo invece di te stesso”, significa mettere il prossimo al posto del mio io.  Sappiamo oggi grazie alla psicologia che una tale richiesta sarebbe fallimentare e mal posta.  L’accettazione di se stessi è il presupposto perché io possa accettare e accogliere il prossimo. Mette la mia persona e la mia fantasia nella condizione di prendere pienamente coscienza dell’altro,  di immedesimarmi nella sua situazione avendo ben presente la regola d’oro : “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro“ ( Mt 7,12)
L’apice dell’etica neotestamentaria è il comandamento dell’amore per i nemici (Lc.6,27). Esso ha dei  paralleli  nelle religioni asiatiche, nel buddismo ( Majjhima-nikaya 21 ), e nel taoismo.  Lao-tzè lo esprime con le parole : “ All’ostilità si risponde con la cortesia “.
Concludo con una domanda, che è anche  connessa al problema, molto discusso, se  le esigenti richieste del Discorso della montagna siano realizzabili-  in realtà non sono state  e non vengono in gran parte realizzate-. È possibile, è pensabile, che l’amore ferisca la giustizia?
 Penso al figlio maggiore della parabola del Figliol Prodigo, che invoca per se giustizia,  di fronte all’amore che  il padre dona al figlio perduto ( Lc 15,29 s.).