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Corrado Passera

Consigliere e Amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Italia
 biography

Grazie mille per questo invito.
Le cose importanti sul tema del nostro convegno di oggi le ha già dette tutte il cardinale Marx, per cui io tento di aggiungere solo alcune cose qui e là.
Certamente per vivere la storia fino in fondo e per “ripensare il mondo” - come ci dice il titolo di questo convegno - oltre la crisi economica dobbiamo capire perché siamo arrivati  al punto in cui siamo; dobbiamo comprendere perché la dimensione della crisi - che giustamente diceva il cardinale Marx si sta evolvendo dalla metà degli anni 2000 prendendo forme diverse - è diventata quella che oggi è.
Dobbiamo accettare che non si tratta di un semplice incidente di percorso, non basta rimettersi in binario com'eravamo prima, se vogliamo capire fino in fondo e se vogliamo ripensare il mondo davanti a noi.
Questo non vuol dire che dobbiamo prendere tutto quello che c'era e buttarlo, perché la storia non funziona così. L’Europa rappresenta un grande risultato di civilizzazione e di conquiste sociali: guai a disperderle!
Certamente stiamo vivendo una discontinuità che tutti assieme dobbiamo capire e accettare per potere  andare oltre. Andare oltre vuol dire non accontentarci dei modi di pensare che ci hanno portato dove siamo arrivati. È un tema anche di categorie mentali, dobbiamo guardare con l’immaginazione che bisogna avere quando si vuole creare il nuovo. Pensare in modo diverso è il pre-requisito per costruire il nuovo e in questo momento costruire futuro è la nostra la principale responsabilità.
Costruendo sul passato e sul presente. Ripeto: non faccio parte di coloro che pensano che si debba ricominciare da capo. Il passato è parte della nostra identità e il presente è parte della nostra identità, ma la nostra identità è soprattutto basata su quello vogliamo essere, quello che vogliamo costruire.
Cambiare il mondo e cambiare il modo di pensare significa innanzitutto rimettere l'economia al suo posto, rimettere l'economia all'interno dei suoi confini.
L'economia è uno straordinario strumento a nostra disposizione, è uno straordinario metodo di analisi e di gestione del reale, ma certamente non deve essere l'unico, come a un certo punto è stato, e non deve essere certamente il prevalente.
Veniamo da venti anni di ubris, di eccesso di presunzione, di sicurezza da parte dell'economia: l'economia sembrava la chiave di ogni cosa, il principio,  il criterio interpretativo di tutto, di qualsiasi aspetto sia sociale che individuale. Tutti ci siamo abituati a leggere con categorie economiche addirittura le cose private, più intime, familiari. Invece di parlare di educazione dei figli abbiamo parlato di “investimenti” in educazione, invece di parlare certe volte di rapporti,  di emozioni, di dare, abbiamo parlato di “investimenti” in rapporti, addirittura di “investimento” in un amore. I guai e le conseguenze di questo approccio alla vita sono un po' sotto gli occhi di tutti.
Costruire futuro vuol dire utilizzare anche gli strumenti dell'economia, ma andare ben oltre perché come tutti noi sappiamo - anche se non era di moda dirlo negli anni passati - tantissime cose che fanno andare avanti il mondo -  anzi le cose principali che fanno andare avanti il mondo - non hanno nulla a che vedere con i criteri base, con i meccanismi elementari dell'economia: l'interesse,  il profitto,  il calcolo.
La società e la politica: dobbiamo tutti andare oltre la visione puraente economistica.  A questo tavolo ci sono persone che l'hanno detto, certamente Giulio Tremonti è tra questi; credo in più casi di averlo fatto anch’io. Ma non era proprio accettato: ci veniva detto che non ricondurre  tutto a livello economico, il non voler portare tutto a livello di interazione e contrasto di interessi, era una maniera per non capire come funzionava il mondo.
Questo ha portato non solo all'uso del mercato, ma quasi al culto del mercato, con tutta una serie di conseguenze. Questo non vuol dire che il mercato non sia uno strepitoso e fondamentale strumento di lavoro: anzi in molti pezzi della società e dell’economia il mercato deve addirittura essere espanso, portato oltre, reso ancora più libero.
Però attenzione: quando uno strumento diventa una specie di ideologia, di meta-interpretazione del reale si porta dietro tanti problemi: così è successo con il mercato. Perché il mercato a un certo punto è diventato l’unico criterio, è diventato una specie di fine invece che uno strumento, è diventato qualcosa che aveva sue regole avulse dal resto, si è ipotizzato che si autoregolasse, si è ipotizzato che ci fosse sempre, che regolasse tutti i rapporti, che esprimesse sempre valutazioni corrette.
Su queste ipotesi -  culturali, epistemologiche - sono state costruite regole che si sono ovviamente dimostrate inefficaci, controlli che si sono dimostrati inefficaci e inefficienti. Quindi senza nulla perdere di questi strumenti - che dobbiamo semmai potenziare - teniamo conto di quanto male ci abbia fatto andare oltre e arrivare alla ideologia del mercato. Adesso se ne può parlare apertamente – intendiamoci: in ambienti come questo in cui siamo riuniti oggi se ne è sempre potuto parlare apertamente – però, come tutti sappiamo, per molti anni era proprio eresia sollevare temi di questo genere.
Ancora un punto su questo tema della società ridotta a economia.
Anch’io cito - come il cardinale - Max Weber, che come voi ricorderete nel suo libro Economia e società parla della “razionalità economica” come modello inevitabile, come un modello di razionalità destinato – purtroppo, diceva anche lui - a prevalere  non solo all’interno dell’economia, ma anche all’interno della società.
Quando parlava di “razionalità economica” parlava di calcolo tra obiettivi e risorse per raggiungerli e tutto ciò che non ottimizzava gli strumenti e i mezzi per raggiungere gli obbiettivi era considerato irrazionale, uno spreco.
Ma se noi applichiamo questo modello - lo diceva anche Weber - alla vita vera, alla vita che tutti noi viviamo nelle famiglie, nelle comunità, capiamo che siamo assolutamente lontanissimi dai veri motori del mondo.
In realtà la vita è fatta di sprechi: di sprechi di emozioni, di sprechi di sentimenti, di sprechi di perdono, di sprechi di volontariato, di sprechi di dono.  Applicando il concetto economico  dello spreco, al limite, in un mondo di pura razionalità  non ci sta neanche Dio, non ci sta l’entusiasmo inteso come Dio dentro. E quindi è una interpretazione chiaramente limitata che può soltanto portare a dei guai: è una gabbia.
Sempre Weber parlava di questa gabbia di acciaio che a un certo punto tragicamente ci chiude. Ed è in parte quello che è successo fino a portare a un’epoca senza incanti, disincantata.
La crisi è l’occasione per liberarci almeno in parte da questa gabbia d’acciaio, nella quale ci siamo chiusi nella quale abbiamo infilato un po’ anche la nostra testa, i nostri desideri. Questa gabbia era comoda, perché semplificava tutto, dava un senso facile, un senso ovvio a tutto. Però ne abbiamo visto l’enorme limite.
Abbiamo visto gli enormi limiti di quei modelli che volevano interpretare a tutti i costi con la pura razionalità, sempre perfetta, i comportamenti degli individui e delle società. Così non è, anche se ancora ascoltiamo certi professorini che quando la realtà non va d’accordo con i modelli danno colpa alla realtà invece che ai loro modelli.
Adesso è chiaro che l’economicismo - che non vuol dire la forza dell’economia, ma l’eccesso di interpretazione economica - ha portato a quegli effetti perversi di cui anche Pareto ci ha parlato: tante conseguenze inattese, autodistruttive.
Oggi possiamo liberamente, anche come testa, costruire futuro. Forse mai come oggi viviamo una situazione di totale libertà dalle ideologie. L’ultima che ci era rimasta addosso era appunto quella del mercato, dopo aver superato tutte le altre e i loro disastri compiuti nell’ultimo secolo. Oggi siamo liberi anche da quest’ultima e quindi abbiamo più possibilità, più responsabilità e naturalmente anche meno riferimenti.
Un riferimento importantissimo che ci è venuto nel pieno della crisi è certamente il contributo dell’enciclica Caritas in veritate, che rimette le cose in ordine e nella giusta gerarchia di valori. Parla - come diceva prima il cardinale Marx - di visione generale - quella che è mancata - di sviluppo integrale dell’uomo e della società: cose coraggiose da dire in una società come la nostra. Mette ordine e distingue tra fini, obiettivi, - lo sviluppo integrale - e strumenti. E tra gli strumenti giustamente colloca il mercato, l’economia, la crescita, ma separando ciò che è fine, che è obiettivo da ciò che è strumento.
La società che viene fuori dalla enciclica è una società dove si supera la visione limitata della somma di interessi,  o addirittura della semplice contrapposizione di interessi che dovrebbe creare automaticamente il bene comune. L’Enciclica interpreta la società come giustamente deve essere: come insieme, come somma di responsabilità, come condivisione di responsabilità sul bene comune. Come ci ha detto prima il cardinale Marx: è responsabilità di tutti.
Quali sono le priorità, quali sono le cose che fanno bene comune? È bene ricordare che nelle varie fasi della storia possono essere diverse. Oggi cos’è bene comune? Se uno legge i giornali verrebbe da pensare che bene comune è ripagare il debito pubblico. No, il ripagamento debito pubblico - che è una cosa che tutti dobbiamo garantire che venga fatto -  è ben al di sotto di ciò che dobbiamo considerare bene comune.
Probabilmente oggi la principale urgenza, la principale priorità in termini di bene comune è il lavoro.
La vera drammatica urgenza che oggi in tutti i nostri paesi, in Europa nel suo complesso, è sotto gli occhi di tutti e forse non abbastanza affrontata è quella del lavoro, della disoccupazione e del disagio legato alla disoccupazione.
Perché al di là dei dati statistici della disoccupazione ufficiale c’è tutto un mondo intorno che rende ancora più grave questa situazione: non ci sono solo i disoccupati, ci sono anche gli inoccupati e i tanti sottooccupati.
Tutti insieme creano un disagio occupazionale che conta molte decine di milioni di persone, e quindi di famiglie in Europa; questa oggi è la nostra vera emergenza.
Il lavoro vero si crea in tanti modi, ma sicuramente non si crea se non c’è crescita economica, crescita che deve essere sostenuta, quindi forte per creare posti di lavoro e sostenibile, perché non ci interessa più la crescita drogata degli ultimi anni, la crescita apparente che sembrava spingere, tutto, ma poi era basata su gambe di argilla.
Ecco che la crescita entra così a far parte di un vero discorso di bene comune a cui tutti dobbiamo lavorare.
Con la crescita si ripagano anche i debiti pubblici e senza crescita alla fine invece anche i nostri doveri, le nostre responsabilità nei confronti dei nostri creditori potrebbero essere messe a rischio.
Quindi disciplina, rigore ma anche sviluppo. Non solo austerità perché la storia ci dice che di austerità si può anche finire male.
Come possiamo misurare la performance dei nostri paesi nei prossimi anni? Sicuramente il GDP, cioè il Prodotto Nazionale Lordo di ogni paese dovrà sempre essere tenuto sott’occhio, ma con due grandi “correttivi”, o meglio, unitamente a due altri grandi indicatori: la creazione di posti di lavoro e l’andamento dei debiti che i sistemi, e in particolare la parte pubblica, creano.
Non possiamo adesso parlare degli strumenti, dei motori che creano crescita perché dovremmo parlare di competitività delle imprese, di funzionamento dei sistemi paese, dei meccanismi di meritocrazia, di sistemi decisionali e qui non ne abbiamo il tempo.
Però qui dobbiamo ricordarci che uno dei motori fondamentali della crescita non è solo la competitività, ma è la coesione sociale. Strumento fondamentale di coesione sociale è il welfare in tutte le sue forme: la previdenza, la sanità, la compensazione delle povertà, le politiche per la famiglia. Tutte quelle cose che riducono le diseguaglianze e riducono soprattutto la paura del futuro.
Qui il terzo settore, il volontariato e l’impresa sociale avranno un ruolo molto importante e crescente in tanti paesi, sicuramente nel nostro: perché il privato in molti di questi settori non ci entrerà e il pubblico avrà sempre meno risorse.
Se guardiamo  a questi “motori”  che devono lavorare tutti insieme per fare crescita troviamo gli elementi del modello economico e sociale europeo. Modello europeo che rimane, con tutte le sue differenze e gradualità, un modello di grande civiltà. Un modello per cui l’Europa può dire, con le sue radici, di essere un passo avanti al resto del mondo.
Prima si faceva riferimento all’ affermazione del cancelliere Merkel che l’ Europa può e deve continuare a fare storia: noi possiamo partire da un modello economico e sociale con tante variazioni, ma con un contenuto di civiltà e di solidità che nessuna altra parte del mondo ha espresso.
Concludo: non si tratta in nessun modo di abbandonare l’economia, anzi l’economia va supportata, va aiutata addirittura. Il mercato fa fatto funzionare meglio in tanti settori dove oggi non funziona abbastanza. Però dobbiamo evitare, rifiutare definitivamente l’economicismo. Rifiutare il pensiero unico che tutto riduce a rapporti di tipo economico perché se mai ne avessimo avuto bisogno, abbiamo avuto una tragica prova dei risultati a cui può portare.
La lezione della crisi è che non basta l’economia: ci vuole politica con lo spirito che diceva prima  il cardinale: cioè la visione generale, perché solo la politica può mettere insieme le cose, suddividere sacrifici e benefici, solo la politica può metterci la visione di lungo periodo, senza la quale non si costruisce futuro.
Oltre la politica ci vogliono valori, padri spirituali, esempi. Ci vuole il coraggio di prendere decisioni molto spesso con esiti non garantiti, e i modelli economici queste cose non le prevedono.
Dobbiamo sprecare passioni, dobbiamo sprecare entusiasmo, dobbiamo metterci di più quella irrazionalità del dono che fa andare avanti sia le famiglie che molte comunità, per ricreare fiducia, per rimetterci dentro speranza,  per sviluppare carità. In altre sedi useremmo parole come solidarietà e come welfare: alla fine di carità stiamo parlando.
Dobbiamo usare il linguaggio della verità e dei fatti perché la gente - e soprattutto i giovani - non ne possono più delle sole parole e soltanto attraverso i fatti si crea fiducia.
Queste sono alcune delle lezioni della crisi e alcuni elementi che ci possono aiutare a ripensare il mondo oltre la crisi economica.
Grazie.