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Ignazio Sanna

Arcivescovo cattolico, Italia
 biografia

1. Il cammino del dialogo interreligioso

Su come il cammino del dialogo interreligioso sia molto delicato ed abbia ancora bisogno di riflessione, dialogo, rispetto reciproco, convergenza di intenti, lo testimonia una recente discussione tra il cardinale Kurt Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani, e Riccardo Di Segni, Rabbino capo di Roma. Il cardinale, su "L'Osservatore Romano" del 7 luglio, ad illustrazione del senso della Giornata di Assisi, nella parte finale del suo articolo, definiva la croce di Gesù "il permanente e universale Yom Kippur" e indicava in essa "il cammino decisivo che soprattutto ebrei e cristiani [...] dovrebbero accogliere in una profonda riconciliazione interiore". "Come cristiani, precisava il cardinale, non veniamo certamente meno al rispetto dovuto alle altre religioni, ma al contrario lo cementiamo, se, soprattutto nel mondo di oggi in cui violenza e terrore sono usati anche in nome della religione, professiamo quel Dio che ha posto di fronte alla violenza la sua sofferenza e ha vinto sulla croce non con la violenza, ma con l’amore. Pertanto, la croce di Gesù non è di ostacolo al dialogo interreligioso; piuttosto, essa indica il cammino decisivo che soprattutto ebrei e cristiani [...] dovrebbero accogliere in una profonda riconciliazione interiore, diventando così fermento di pace e di giustizia nel mondo".

Quest’ultima affermazione non è stata condivisa dal Rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che, su "L'Osservatore Romano" del 29 luglio, replicava così: "Se i termini del discorso sono quelli di indicare agli ebrei il cammino della croce, non si capisce il perché di un dialogo e il perché di Assisi". Il rabbino capo di Roma insiste sul fatto che lo Yom Kippur, il giorno dell'espiazione, è la festa liturgica più importante dell'anno ebraico. È il giorno in cui è concessa la remissione dei peccati, l'unico nel quale il sommo sacerdote entrava nel "sancta sanctorum" del tempio e chiamava Dio per nome. È preceduto dai giorni del pentimento ed è celebrato nelle sinagoghe con grande presenza di popolo. Vi domina la lettura del libro di Giona, grandiosa rappresentazione della misericordia divina. Il digiuno è totale, per 25 ore non si mangia e non si beve.

In effetti, Di Segni aveva spiegato il senso di questa festa, sempre su "L'Osservatore Romano", già nel 2008. E già allora aveva sottolineato che nello Yom Kippur si manifestano le "differenze inconciliabili tra i due mondi", il mondo degli ebrei e quello dei cristiani, perché "un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippur, così come un ebreo che ha il Kippur non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana". Secondo Di Segni, il cristiano "non deve proporre all'ebreo le proprie credenze e interpretazioni come indici del 'cammino decisivo', perché così veramente si rischia di rientrare nella teologia della sostituzione e la Croce diventa ostacolo". E prosegue: "La propria differenza non può essere proposta all'altro come il modello da seguire. In questo modo si supera un limite che nel rapporto ebraico-cristiano può essere sfumato ma che deve essere invalicabile. Perlomeno non è un modo di dialogare che possa interessare gli ebrei".

In cardinale ha cercato di rispondere alla presa di posizione del Rabbino capo precisando che non riteneva “assolutamente che gli ebrei debbano vedere la croce come noi cristiani, per poter intraprendere insieme il cammino verso Assisi. [...] Non si intende pertanto sostituire lo Yom Kippur ebraico con la croce di Cristo, anche se i cristiani vedono nella croce 'il permanente e universale Yom Kippur'. Ecco che viene qui toccato il punto fondamentale, molto delicato, del dialogo ebraico-cattolico, ovvero la questione di come si possano conciliare la convinzione, vincolante anche per i cristiani, che l’alleanza di Dio con il popolo d’Israele ha una validità permanente e la fede cristiana nella redenzione universale in Gesù Cristo, in modo tale che, da una parte, gli ebrei non abbiano l’impressione che la loro religione è vista dai cristiani come superata e, dall’altra, i cristiani non debbano rinunciare a nessun aspetto della loro fede. Senz’altro, tale questione fondamentale occuperà ancora a lungo il dialogo ebraico-cristiano".

Sandro Magister, a commento di questa discussione sul suo blog, osserva acutamente che non è un caso che il profeta Giona, il profeta letto nella festa ebraica del Kippur, appaia al centro degli affreschi della Cappella Sistina, tra la creazione del mondo e il giudizio finale. In una parola misteriosa, Gesù indicò se stesso nel "segno di Giona" (Luca 11, 29-32). Ed anzi, aggiunse: "Ben più di Giona c'è qui". Quel segno di contraddizione che fu Gesù per gli ebrei del suo tempo permane tuttora tra cristiani ed ebrei e si manifesta nello Yom Kippur. Gli ebrei celebreranno la festa dell'espiazione il 10 ottobre, pochi giorni prima della Giornata di Assisi.

2. La collaborazione delle fedi


Se il dibattito sul rapporto Croce di Cristo- Yom Kippur evidenzia la differenza permanente su come concepire la salvezza dell’uomo, su un altro versante, Tony Blair, ex primo ministro britannico, sostiene la possibilità di una feconda collaborazione tra gli appartenenti alle diverse fedi. Infatti, egli sostiene, in una recente intervista, che mentre appare in declino quell’aspetto della religione che talvolta erroneamente sembra apparire superstizione, è invece sempre più con noi l’aspetto della fede che riguarda la creazione di una base morale per la vita. Inoltre, le persone non sembrano ritenere che questa base provenga soltanto dall’umanità, ma rifletta il volere di un Essere superiore. E tuttavia è difficile raccogliere la prova empirica di come la gente veda oggi la fede. Abbiamo realmente bisogno di studi qualitativi e quantitativi, e quelli che vengono fatti sul campo sono molto deboli.

Egli non crede che tutta l’Europa viva allo stesso modo questo stato di cose. Crede anche che, mentre c’è un'ampia disillusione nei confronti delle organizzazioni religiose ufficiali, c’è ancora un desiderio profondo in Europa di un compimento spirituale. La stragrande maggioranza delle culture contemporanee legge il mondo e riflette sui suoi problemi in termini religiosi. E’ per questo motivo che due programmi della sua Faith Foundation riguardano l’alfabetizzazione religiosa, uno nelle scuole e uno all’università. Significa imparare sia un linguaggio rispettoso e sensibile nei confronti di persone di altre fedi, sia avere la capacità di analizzare due delle maggiori forze trainanti del mondo di oggi - fede e globalizzazione - nella loro interazione contemporanea.

Blair giunge alla conclusione che i diritti delle minoranze religiose siano oggi una questione centrale. Ma non possono venire separati da una cultura globale dei diritti umani che includa tutti i diritti previsti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’Onu. Il concetto centrale con il quale abbiamo a che fare, in questo caso, è quello di eguale cittadinanza. Quale che sia la religione di un cittadino, egli deve avere la stessa opportunità di partecipare alla vita della nazione, così come gli stessi diritti di proprietà, l’assenza di «soffitti di cristallo» nell’impiego e, naturalmente, la libertà di preghiera senza alcun impedimento a livello nazionale o locale. Nessuna nazione o stato, comunità o famiglia, può rinunciare a valori condivisi. Libertà di religione significa che ogni religione ha il diritto alla manifestazione pubblica dei propri valori-chiave. I valori civici condivisi, in certi casi specifici, possono però collidere con l’espressione di valori religiosi. Si tratta di scelte difficili da fare. Ma se lo scontro è serio e non c’è la possibilità di trovare un compromesso, ritengo che l’unico modo di risolvere i conflitti sia il ricorso alla legge.

 Alla domanda su come le diverse tradizioni religiose possono impiegare risorse e potenzialità per creare culture compatibili sul piano dei diritti umani per affermare la dignità di tutte le persone,  l’ex primo ministro britannico risponde sinteticamente: attraverso il dialogo tra le fedi. L’iniziativa musulmana «Una parola comune tra noi e voi» è un grande passo in avanti nel suo tentativo di sbrogliare con il dialogo ciò che è implicito nell’amore di Dio e nell’amore del prossimo. Aggiungerei poi la necessità del dialogo con il pensiero secolare. Le discussioni di Papa Benedetto con Jurgen Habermas offrono un esempio sorprendente. Il concetto di «giustizia», conclude Blair, è condiviso da tutte le fedi, così come lo è il valore della compassione. Si può procedere verso la democrazia pluralista immaginando come si può creare meglio una società giusta in un mondo globalizzato, basata sul rispetto reciproco, l’uguale cittadinanza e la risposta caritatevole ai bisogni dei poveri. Attingendo alla risorse teologiche ed etiche di ciascuno, penso che si troverà alla fine una confluenza intorno a ciò che viene comunemente compreso come democrazia pluralista.

3. La libertà religiosa e la pace

Tenendo presente, ora, questa difficoltà di cammino del dialogo interreligioso e, allo stesso tempo, la concreta possibilità di collaborazione tra gli appartenenti alle diverse credenze religiose, ritengo utile riassumere la posizione di papa Benedetto XVI come è stata espressa nel suo messaggio per la giornata mondiale della pace di quest’anno, che aveva per tema, appunto, la libertà religiosa via della pace. Vorrei riassumere, in un primo momento, che cosa Benedetto XVI intende per libertà religiosa e pace, ed elencare, in un secondo momento, alcune possibili vie di pace, promosse dalla libertà religiosa.

3.1. Anzitutto, secondo Benedetto XVI, “la libertà religiosa è un bene essenziale: ogni persona deve poter esercitare liberamente il diritto di professare e di manifestare, individualmente o comunitariamente, la propria religione o la propria fede, sia in pubblico che in privato, nell’insegnamento, nelle pratiche, nelle pubblicazioni, nel culto e nell’osservanza dei riti. Non dovrebbe incontrare ostacoli se volesse, eventualmente, aderire ad un’altra religione o non professarne alcuna. In questo ambito, l’ordinamento internazionale risulta emblematico ed è un riferimento essenziale per gli Stati, in quanto non consente alcuna deroga alla libertà religiosa, salvo la legittima esigenza dell’ordine pubblico informato a giustizia. L’ordinamento internazionale riconosce così ai diritti di natura religiosa lo stesso status del diritto alla vita e alla libertà personale, a riprova della loro appartenenza al nucleo essenziale dei diritti dell’uomo, a quei diritti universali e naturali che la legge umana non può mai negare.

La libertà religiosa non è patrimonio esclusivo dei credenti, ma dell’intera famiglia dei popoli della terra. È elemento imprescindibile di uno Stato di diritto; non la si può negare senza intaccare nel contempo tutti i diritti e le libertà fondamentali, essendone sintesi e vertice. Essa è "la cartina di tornasole per verificare il rispetto di tutti gli altri diritti umani". Mentre favorisce l’esercizio delle facoltà più specificamente umane, crea le premesse necessarie per la realizzazione di uno sviluppo integrale, che riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione.

La libertà religiosa, come ogni libertà, pur muovendo dalla sfera personale, si realizza nella relazione con gli altri. Una libertà senza relazione non è libertà compiuta. Anche la libertà religiosa non si esaurisce nella sola dimensione individuale, ma si attua nella propria comunità e nella società, coerentemente con l’essere relazionale della persona e con la natura pubblica della religione.

La relazionalità è una componente decisiva della libertà religiosa, che spinge le comunità dei credenti a praticare la solidarietà per il bene comune. In questa dimensione comunitaria ciascuna persona resta unica e irripetibile e, al tempo stesso, si completa e si realizza pienamente.

E’ innegabile il contributo che le comunità religiose apportano alla società. Sono numerose le istituzioni caritative e culturali che attestano il ruolo costruttivo dei credenti per la vita sociale. Più importante ancora è il contributo etico della religione nell’ambito politico. Esso non dovrebbe essere marginalizzato o vietato, ma compreso come valido apporto alla promozione del bene comune. In questa prospettiva bisogna menzionare la dimensione religiosa della cultura, tessuta attraverso i secoli grazie ai contributi sociali e soprattutto etici della religione. Tale dimensione non costituisce in nessun modo una discriminazione di coloro che non ne condividono la credenza, ma rafforza, piuttosto, la coesione sociale, l’integrazione e la solidarietà.

Nel mondo globalizzato, caratterizzato da società sempre più multi-etniche e multi-confessionali, le grandi religioni possono costituire un importante fattore di unità e di pace per la famiglia umana. Sulla base delle proprie convinzioni religiose e della ricerca razionale del bene comune, i loro seguaci sono chiamati a vivere con responsabilità il proprio impegno in un contesto di libertà religiosa. Nelle svariate culture religiose, mentre dev’essere rigettato tutto quello che è contro la dignità dell’uomo e della donna, occorre invece fare tesoro di ciò che risulta positivo per la convivenza civile.

Lo spazio pubblico, che la comunità internazionale rende disponibile per le religioni e per la loro proposta di "vita buona", favorisce l’emergere di una misura condivisibile di verità e di bene, come anche un consenso morale, fondamentali per una convivenza giusta e pacifica. I leader delle grandi religioni, per il loro ruolo, la loro influenza e la loro autorità nelle proprie comunità, sono i primi ad essere chiamati al rispetto reciproco e al dialogo.

I cristiani, da parte loro, sono sollecitati dalla stessa fede in Dio, Padre del Signore Gesù Cristo, a vivere come fratelli che si incontrano nella Chiesa e collaborano all’edificazione di un mondo dove le persone e i popoli "non agiranno più iniquamente né saccheggeranno […], perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare" (Is 11, 9).

Per la Chiesa il dialogo tra i seguaci di diverse religioni costituisce uno strumento importante per collaborare con tutte le comunità religiose al bene comune. La Chiesa stessa nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle varie religioni. "Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini".

3. 2. Per Benedetto XVI, “la pace è un dono di Dio e al tempo stesso un progetto da realizzare, mai totalmente compiuto. Una società riconciliata con Dio è più vicina alla pace, che non è semplice assenza di guerra, non è mero frutto del predominio militare o economico, né tantomeno di astuzie ingannatrici o di abili manipolazioni. La pace invece è risultato di un processo di purificazione ed elevazione culturale, morale e spirituale di ogni persona e popolo, nel quale la dignità umana è pienamente rispettata. Come insegna il Servo di Dio Paolo VI, "Occorre innanzi tutto dare alla Pace altre armi, che non quelle destinate ad uccidere e a sterminare l'umanità. Occorrono sopra tutto le armi morali, che danno forza e prestigio al diritto internazionale; quelle, per prime, dell’osservanza dei patti". La libertà religiosa è un’autentica arma della pace, con una missione storica e profetica. Essa infatti valorizza e mette a frutto le più profonde qualità e potenzialità della persona umana, capaci di cambiare e rendere migliore il mondo. Essa consente di nutrire la speranza verso un futuro di giustizia e di pace, anche dinanzi alle gravi ingiustizie e alle miserie materiali e morali”.
Nell’enciclica Caritas in veritate, il papa aveva precisato che “anche la pace rischia talvolta di essere considerata come un prodotto tecnico, frutto soltanto di accordi tra governi o di iniziative volte ad assicurare efficienti aiuti economici. È vero che la costruzione della pace esige la costante tessitura di contatti diplomatici, di scambi economici e tecnologici, di incontri culturali, di accordi su progetti comuni, come anche l'assunzione di impegni condivisi per arginare le minacce di tipo bellico e scalzare alla radice le ricorrenti tentazioni terroristiche. Tuttavia, perché tali sforzi possano produrre effetti duraturi, è necessario che si appoggino su valori radicati nella verità della vita. Occorre cioè sentire la voce e guardare alla situazione delle popolazioni interessate per interpretarne adeguatamente le attese. Ci si deve porre, per così dire, in continuità con lo sforzo anonimo di tante persone fortemente impegnate nel promuovere l'incontro tra i popoli e nel favorire lo sviluppo partendo dall'amore e dalla comprensione reciproca. Tra queste persone ci sono anche fedeli cristiani, coinvolti nel grande compito di dare allo sviluppo e alla pace un senso pienamente umano (Caritas in veritate, 72).


4. Le vie della pace.

Una volta precisati i concetti di libertà religiosa e della pace secondo Benedetto XVI, passo ad elencare quali sono le possibili vie di pace promosse dalla libertà religiosa, dopo una premessa metodologica ispirata al pensiero di S. Agostino.

Un detto di S. Agostino dice: “ambula per hominem et pervenies ad Deum”, cammina sulla via dell’uomo e arrivi a Dio. Io direi che si può invertire il detto agostiniano e dire “ambula per Deum et pervenies ad hominem”. Cammina sulla via di Dio e arrivi all’uomo. In altri termini, si può dire che c’è un’alleanza di fondo tra umanesimo e religione, tra vita umana e vita di fede, tra ciò che è autenticamente umano e ciò che è autenticamente religioso. Chi ha un concetto alto di Dio ha un concetto alto dell’uomo e, viceversa, chi ha un concetto basso di Dio ha un concetto basso anche dell’uomo. C’è una profonda reciprocità tra rispetto dell’uomo e rispetto di Dio.

5. La dignità della persona

Alla luce di questa verità fondamentale, la prima via di pace è la difesa della dignità della persona umana. “Nella libertà religiosa trova espressione la specificità della persona umana, che per essa può ordinare la propria vita personale e sociale a Dio, alla cui luce si comprendono pienamente l’identità, il senso e il fine della persona. Negare o limitare in maniera arbitraria tale libertà significa coltivare una visione riduttiva della persona umana; oscurare il ruolo pubblico della religione significa generare una società ingiusta, poiché non proporzionata alla vera natura della persona umana; ciò significa rendere impossibile l’affermazione di una pace autentica e duratura di tutta la famiglia umana.

Il diritto alla libertà religiosa è radicato nella stessa dignità della persona umana, la cui natura trascendente non deve essere ignorata o trascurata. Dio ha creato l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1,27). Per questo ogni persona è titolare del sacro diritto ad una vita integra anche dal punto di vista spirituale. Senza il riconoscimento del proprio essere spirituale, senza l’apertura al trascendente, la persona umana si ripiega su se stessa, non riesce a trovare risposte agli interrogativi del suo cuore circa il senso della vita e a conquistare valori e principi etici duraturi, e non riesce nemmeno a sperimentare un’autentica libertà e a sviluppare una società giusta.

La dignità trascendente della persona è un valore essenziale della sapienza giudaico-cristiana, ma, grazie alla ragione, può essere riconosciuta da tutti. Questa dignità, intesa come capacità di trascendere la propria materialità e di ricercare la verità, va riconosciuta come un bene universale, indispensabile per la costruzione di una società orientata alla realizzazione e alla pienezza dell’uomo. Il rispetto di elementi essenziali della dignità dell’uomo, quali il diritto alla vita e il diritto alla libertà religiosa, è una condizione della legittimità morale di ogni norma sociale e giuridica.

Su questa posizione di Benedetto XVI si sono trovati d’accordo una trentina di leader religiosi europei appartenenti a numerose comunità di fede e raccolti nel European Council of Religious Leaders. Questi, nel giugno scorso, a Mosca,  hanno trovato un minimo denominatore comune precisamente sul valore della dignità umana. Secondo i leader religiosi, la dignità dell’uomo va rispettata sempre, indipendentemente da qualsiasi posizione religiosa e morale. Con la “Dichiarazione di Mosca”, dal titolo Difendere la dignità umana attraverso i diritti umani e i valori tradizionali, cattolici, ortodossi, protestanti, anglicani, ebrei, musulmani, buddisti, induisti, sikh e zoroastriani hanno accettato la “Dichiarazione universale dei diritti umani” e la “Convenzione europea dei diritti umani” come la formulazione fondamentale in cui ogni religione, di fatto, si riconosce. E insieme hanno preso le distanze da quelle pratiche tradizionali che danneggiano la dignità umana e sono spesso in contrasto con i veri valori e principi religiosi. La Dichiarazione ribadisce altresì che la dignità umana deve essere rispettata, indipendentemente dalla posizione religiosa o morale dell’individuo, o da ogni altra sua qualità, anche se segnata, ad esempio, da delitti o da convinzioni inumane o immorali.

6. La libertà morale


La dignità della persona umana non può prescindere dall’esercizio della libertà morale. Infatti, “la religiosa è all’origine della libertà morale. In effetti, l’apertura alla verità e al bene, l’apertura a Dio, radicata nella natura umana, conferisce piena dignità a ciascun uomo ed è garante del pieno rispetto reciproco tra le persone. Pertanto, la libertà religiosa va intesa non solo come immunità dalla coercizione, ma prima ancora come capacità di ordinare le proprie scelte secondo la verità.

Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti, non ha una "identità" da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre "volontà", anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre "ragioni" o addirittura nessuna "ragione". L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza, è in realtà l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani. Si comprende quindi la necessità di riconoscere una duplice dimensione nell’unità della persona umana: quella religiosa e quella sociale. Al riguardo, è inconcepibile che i credenti "debbano sopprimere una parte di se stessi - la loro fede - per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti".

7. La difesa della famiglia


Se la libertà religiosa è via per la pace, l’educazione religiosa è strada privilegiata per abilitare le nuove generazioni a riconoscere nell’altro il proprio fratello e la propria sorella, con i quali camminare insieme e collaborare perché tutti si sentano membra vive di una stessa famiglia umana, dalla quale nessuno deve essere escluso.

La famiglia fondata sul matrimonio, espressione di unione intima e di complementarietà tra un uomo e una donna, si inserisce in questo contesto come la prima scuola di formazione e di crescita sociale, culturale, morale e spirituale dei figli, che dovrebbero sempre trovare nel padre e nella madre i primi testimoni di una vita orientata alla ricerca della verità e all’amore di Dio. Gli stessi genitori dovrebbero essere sempre liberi di trasmettere senza costrizioni e con responsabilità il proprio patrimonio di fede, di valori e di cultura ai figli. La famiglia, prima cellula della società umana, rimane l’ambito primario di formazione per relazioni armoniose a tutti i livelli di convivenza umana, nazionale e internazionale. Questa è la strada da percorrere sapientemente per la costruzione di un tessuto sociale solido e solidale, per preparare i giovani ad assumere le proprie responsabilità nella vita, in una società libera, in uno spirito di comprensione e di pace.

8. Libertà di professare la propria religione

Nonostante gli insegnamenti della storia e l’impegno degli Stati, delle Organizzazioni internazionali a livello mondiale e locale, delle Organizzazioni non governative e di tutti gli uomini e le donne di buona volontà che ogni giorno si spendono per la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, nel mondo ancora oggi si registrano persecuzioni, discriminazioni, atti di violenza e di intolleranza basati sulla religione. In particolare, in Asia e in Africa le principali vittime sono i membri delle minoranze religiose, ai quali viene impedito di professare liberamente la propria religione o di cambiarla, attraverso l’intimidazione e la violazione dei diritti, delle libertà fondamentali e dei beni essenziali, giungendo fino alla privazione della libertà personale o della stessa vita.

Vi sono poi forme più sofisticate di ostilità contro la religione, che nei Paesi occidentali si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini. Esse fomentano spesso l’odio e il pregiudizio e non sono coerenti con una visione serena ed equilibrata del pluralismo e della laicità delle istituzioni, senza contare che le nuove generazioni rischiano di non entrare in contatto con il prezioso patrimonio spirituale dei loro Paesi.

La difesa della religione passa attraverso la difesa dei diritti e delle libertà delle comunità religiose. I leader delle grandi religioni del mondo e i responsabili delle Nazioni rinnovino, allora, l’impegno per la promozione e la tutela della libertà religiosa, in particolare per la difesa delle minoranze religiose, le quali non costituiscono una minaccia contro l’identità della maggioranza, ma sono al contrario un’opportunità per il dialogo e per il reciproco arricchimento culturale. La loro difesa rappresenta la maniera ideale per consolidare lo spirito di benevolenza, di apertura e di reciprocità con cui tutelare i diritti e le libertà fondamentali in tutte le aree e le regioni del mondo.

Il mondo ha bisogno di Dio. Ha bisogno di valori etici e spirituali, universali e condivisi, e la religione può offrire un contributo prezioso nella loro ricerca, per la costruzione di un ordine sociale giusto e pacifico, a livello nazionale e internazionale.

9. La difesa della terra.

9.1. E’ a tutti noto che il possesso della terra ha generato e continua a generare aspri conflitti. Ciò in tutte parti del mondo. Ma in modo particolare in Medio Oriente e soprattutto nella Palestina. Se però dalla lotta per il possesso della terra si passa all’impegno comune per difenderla, sia fa un passo enorme verso la pace. Il 25 luglio scorso a Gerusalemme è stato presentato un testo comune di cristiani, ebrei e musulmani per chiedere ai leader religiosi di scendere in campo nella lotta contro i cambiamenti climatici. Che le tre grandi religioni monoteiste a Gerusalemme si siano messe d'accordo su qualcosa è un gran bella notizia. Ma che proprio da Gerusalemme decidano anche di lanciare insieme un appello ai leader mondiali sulla lotta ai cambiamenti climatici - cioè proprio su una delle partite che oggi arrovellano le diplomazie di mezzo mondo - ha decisamente dell'incredibile. Eppure a questo ha mirato l'iniziativa che è stata presentata a Gerusalemme, con il sostegno di nomi molto autorevoli delle comunità ebraiche, cristiane e musulmane della Città Santa.

Si chiama «Holy Land Declaration on Climate Change» e guarda esplicitamente alla Conferenza internazionale sul clima in programma a Durban - in Sudafrica - nel prossimo mese di novembre. Che è poi la continuazione di quelle svoltesi a Copenhagen nel 2009 e a Cancun nel 2010, entrambe  terminate senza quell'accordo sulla riduzione delle emissioni dei gas serra che l'Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) - il pool incaricato dall'Onu di monitorare il fenomeno - ritiene indispensabile per combattere davvero il riscaldamento globale. In vista dell'appuntamento di Durban un cartello di organismi di confessioni diverse si sta muovendo in diversi Paesi del mondo per sollecitare i leader religiosi a scendere in campo in favore di questa battaglia. Vorrebbero che andassero di persona a Durban per mettere pressione ai politici; e hanno scritto una lettera con questo invito anche al Papa, al patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I e al Dalai Lama.

Intanto - però - un primo risultato significativo l'hanno raccolto a Gerusalemme, con l'adesione del Council of the Religious Institution of the Holy Land, l'organismo che vede seduti intorno a uno stesso tavolo il Gran Rabbinato di Israele, il ministero palestinese degli Affari religiosi, le Corti islamiche e i capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme. Dal confronto all'interno di questo parlamentino delle religioni è nata la dichiarazione comune che è stata presentata ufficialmente dal patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal, dal vice-ministro palestinese degli Affari religiosi Haj Salah Zuheika e dal rabbino David Rosen, direttore per gli affari religiosi dell'American Jewish Committee, una delle più importanti organizzazioni ebraiche mondiali. L'evento si è tenuto - non a caso - all'American Colony, l'hotel che a Gerusalemme è il quartiere generale della stampa estera.

Quello dei leader religiosi della Terra Santa è un vero e proprio endorsement del programma dell'Ipcc: «Riconosciamo - si legge nella dichiarazione - le evidenze scientifiche del cambiamento climatico provocato dall'uomo e la minaccia che pone alle società umane e al pianeta, come spiegato dall'Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite. E riconosciamo anche le radici spirituali di questa crisi e l'importanza di offrire una risposta religiosa».

Di qui l'invito a procedere a un «profondo ripensamento sul proprio rapporto spirituale e fisico con questo pianeta donato da Dio e su come consumiamo, usiamo e disponiamo delle sue risorse benedette». Ma i leader religiosi - molto concretamente - ai fedeli chiedono anche «di ridurre le proprie personali emissioni di gas serra e di sollecitare i propri leader politici ad adottare obiettivi forti, vincolanti e scientificamente motivati per la riduzione dei gas serra, in modo da evitare i pericoli peggiori delle crisi climatiche».

9.2. La presa di posizione dei rappresentanti delle tre religioni monoteiste a difesa dell’ambiente, per altro sempre presente nel magistero pontificio, risponde alle preoccupazioni ed indicazioni del mondo scientifico.

Secondo Philippe Descola, successore di Lévi-Strauss sulla cattedra di antropologia al Collège de France, sempre più persone sono consapevoli che il modello di sviluppo che ha retto il mondo in questi ultimi due secoli si sta sbriciolando. Per l’illustre antropologo francese, le tre questioni dell’ecologia, tecnologia e coesistenza con le altre civiltà sono riconducibili a una sola, cioè come far coabitare, senza troppi danni, rinunce e conflitti, tutti gli occupanti del pianeta. E se non si arriva a questo ci sarà una catastrofe ambientale, demografica e informatica. In alcuni paesi, come l’Ecuador, la tutela e il rispetto delle risorse vitali sono inseriti nella Costituzione. Il fatto è che gli uomini non sono soli sulla scena dell’umanità. E il resto, quello che di solito si chiama natura o ambiente, non è una nostra proprietà, né una nostra proiezione, né tanto meno una semplice risorsa a disposizione del nostro sviluppo. Le altre creature, animali, piante, minerali, sono altrettanti coinquilini del mondo. Non solo cose o forme di vita, ma veri e propri agenti sociali che hanno gli stessi diritti degli umani. E spesso dei tratti in comune, che non sono meramente biologici ma addirittura culturali. Ecco perché oggi l’antropologia non può limitarsi all’uomo, ma deve estendere il suo sguardo su tutti gli esseri con i quali interagiamo e conviviamo.

9.3. Per Benedetto XVI, “l’ambiente è stato donato da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l'umanità intera. Se la natura, e per primo l'essere umano, vengono considerati come frutto del caso o del determinismo evolutivo, la consapevolezza della responsabilità si attenua nelle coscienze. Nella natura il credente riconosce il meraviglioso risultato dell'intervento creativo di Dio, che l'uomo può responsabilmente utilizzare per soddisfare i suoi legittimi bisogni — materiali e immateriali — nel rispetto degli intrinseci equilibri del creato stesso. Se tale visione viene meno, l'uomo finisce o per considerare la natura un tabù intoccabile o, al contrario, per abusarne. Ambedue questi atteggiamenti non sono conformi alla visione cristiana della natura, frutto della creazione di Dio”.

“La natura è espressione di un disegno di amore e di verità. Essa ci precede e ci è donata da Dio come ambiente di vita. Ci parla del Creatore (cfr Rm 1, 20) e del suo amore per l'umanità. È destinata ad essere « ricapitolata » in Cristo alla fine dei tempi (cfr Ef 1, 9-10; Col 1, 19-20). Anch'essa, quindi, è una « vocazione ». La natura è a nostra disposizione non come « un mucchio di rifiuti sparsi a caso », bensì come un dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l'uomo ne tragga gli orientamenti doverosi per “custodirla e coltivarla” (Gn 2,15). Ma bisogna anche sottolineare che è contrario al vero sviluppo considerare la natura più importante della stessa persona umana. Questa posizione induce ad atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo: dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, non può derivare la salvezza per l'uomo. Peraltro, bisogna anche rifiutare la posizione contraria, che mira alla sua completa tecnicizzazione, perché l'ambiente naturale non è solo materia di cui disporre a nostro piacimento, ma opera mirabile del Creatore, recante in sé una “grammatica” che indica finalità e criteri per un utilizzo sapiente, non strumentale e arbitrario. Oggi molti danni allo sviluppo provengono proprio da queste concezioni distorte. Ridurre completamente la natura ad un insieme di semplici dati di fatto finisce per essere fonte di violenza nei confronti dell'ambiente e addirittura per motivare azioni irrispettose verso la stessa natura dell'uomo. Questa, in quanto costituita non solo di materia ma anche di spirito e, come tale, essendo ricca di significati e di fini trascendenti da raggiungere, ha un carattere normativo anche per la cultura. L'uomo interpreta e modella l'ambiente naturale mediante la cultura, la quale a sua volta viene orientata mediante la libertà responsabile, attenta ai dettami della legge morale. I progetti per uno sviluppo umano integrale non possono pertanto ignorare le generazioni successive, ma devono essere improntati a solidarietà e a giustizia intergenerazionali, tenendo conto di molteplici ambiti: l'ecologico, il giuridico, l'economico, il politico, il culturale”.


“All'uomo è lecito esercitare un governo responsabile sulla natura per custodirla, metterla a profitto e coltivarla anche in forme nuove e con tecnologie avanzate in modo che essa possa degnamente accogliere e nutrire la popolazione che la abita. C'è spazio per tutti su questa nostra terra: su di essa l'intera famiglia umana deve trovare le risorse necessarie per vivere dignitosamente, con l'aiuto della natura stessa, dono di Dio ai suoi figli, e con l'impegno del proprio lavoro e della propria inventiva. Dobbiamo però avvertire come dovere gravissimo quello di consegnare la terra alle nuove generazioni in uno stato tale che anch'esse possano degnamente abitarla e ulteriormente coltivarla. Ciò implica l'impegno di decidere insieme, « dopo aver ponderato responsabilmente la strada da percorrere, con l'obiettivo di rafforzare quell'alleanza tra essere umano e ambiente che deve essere specchio dell'amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino.» È auspicabile che la comunità internazionale e i singoli governi sappiano contrastare in maniera efficace le modalità d'utilizzo dell'ambiente che risultino ad esso dannose. È altresì doveroso che vengano intrapresi, da parte delle autorità competenti, tutti gli sforzi necessari affinché i costi economici e sociali derivanti dall'uso delle risorse ambientali comuni siano riconosciuti in maniera trasparente e siano pienamente supportati da coloro che ne usufruiscono e non da altre popolazioni o dalle generazioni future: la protezione dell'ambiente, delle risorse e del clima richiede che tutti i responsabili internazionali agiscano congiuntamente e dimostrino prontezza ad operare in buona fede, nel rispetto della legge e della solidarietà nei confronti delle regioni più deboli del pianeta. Uno dei maggiori compiti dell'economia è proprio il più efficiente uso delle risorse, non l'abuso, tenendo sempre presente che la nozione di efficienza non è assiologicamente neutrale”.
Benedetto XVI “richiama la società odierna a rivedere seriamente il suo stile di vita che, in molte parti del mondo, è incline all'edonismo e al consumismo, restando indifferente ai danni che ne derivano.  È necessario un effettivo cambiamento di mentalità che ci induca ad adottare nuovi stili di vita, “nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti”. Ogni lesione della solidarietà e dell'amicizia civica provoca danni ambientali, così come il degrado ambientale, a sua volta, provoca insoddisfazione nelle relazioni sociali. La natura, specialmente nella nostra epoca, è talmente integrata nelle dinamiche sociali e culturali da non costituire quasi più una variabile indipendente. La desertificazione e l'impoverimento produttivo di alcune aree agricole sono anche frutto dell'impoverimento delle popolazioni che le abitano e della loro arretratezza. Incentivando lo sviluppo economico e culturale di quelle popolazioni, si tutela anche la natura. Inoltre, quante risorse naturali sono devastate dalle guerre! La pace dei popoli e tra i popoli permetterebbe anche una maggiore salvaguardia della natura. L'accaparramento delle risorse, specialmente dell'acqua, può provocare gravi conflitti tra le popolazioni coinvolte. Un pacifico accordo sull'uso delle risorse può salvaguardare la natura e, contemporaneamente, il benessere delle società interessate”.