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Franz Rosenbach

Testimone, Associazione dei Sinti e Rom, Germania
 biografia

Sono uno dei pochi sopravvissuti della nostra minoranza al genocidio e in questa veste desidero rendere testimonianza dei crimini che sono stati perpetrati durante il periodo nazista contro la nostra gente e contro gli ebrei, nostri compagni di sofferenza.
Vivevo allora con la mia famiglia in un villaggio della Bassa Austria. Frequentavo la scuola e mio padre era impiegato in una ditta di costruzioni. Finita la scuola, sono stato assunto alle ferrovie. Senza alcun preavviso, mio padre nel 1942 è stato arrestato dalla Gestapo; io avevo allora 15 anni.
Un anno dopo, nel marzo del 1943, anch'io sono stato preso dalla Gestapo, direttamente sul posto di lavoro, e sono stato deportato insieme a mia madre, a mio zio e ai suoi figli nel cosiddetto “lager degli zingari” di Auschwitz-Birkenau. Le mie tre sorelle maggiori erano state deportate ad  Auschwitz-Birkenau poco prima di noi. Da loro ho appreso che mio padre era stato colpito a morte dalle SS due giorni prima del nostro arrivo.
Il cosiddetto “lager degli zingari” era vicinissimo alla sezione dove erano tenuti gli ebrei. Eravamo separati solo da una recinzione di filo spinato elettrificato. Nella nostra baracca erano ammassate dalle 500 alle 600 persone e ci stendevamo ammucchiati gli uni sugli altri sulle assi che fungevano da letti. L'umidità e il freddo erano insopportabili.
Poco dopo il mio arrivo sono stato scelto per i lavori forzati nel kommando che doveva costruire le canalizzazioni a Birkenau, composto esclusivamente da sinti e rom. Non avevamo né scarpe, né calze e anche sotto il temporale o la pioggia non potevamo mai smettere di spalare il fango. Gli smagriti prigionieri venivano percossi con grandi bastoni per costringerli a lavorare fino al completo sfinimento; ogni sera dovevamo riportare indietro verso l'accampamento i morti. Chi non lo ha vissuto non può immaginarselo. La strada del lager di Birkenau era ricoperta di cadaveri. La notte, quando erano completamente assiderati, i corpi irrigiditi dal congelamento venivano buttati su un camion e portati via.
Un giorno siamo stati trasportati a Buchewald, alla cosiddetta Arbeitsansatz. Mia madre piangeva quando l'ho salutata e ripeteva che dovevo badare a me stesso. Non l'ho mai più rivista. È stata ammazzata dalle SS nelle camere a gas insieme ad altre 2.800 persone nella notte tra il 2 e il 3 agosto del 1944, quando è stato distrutto il “lager degli zingari”.
A Buchenwald ero ai lavori forzati in una cava e per tutto il giorno dovevo trascinare pietre in cima ad una scalinata. La mia baracca stava in basso, vicino al bosco, nel cosiddetto “piccolo lager”. Alla fine del 1943 siamo stati trasportati in vagoni per il bestiame alla Dora Mittelbau, che a quel tempo era ancora un campo esterno di Buchenwald. Nel kommando B11 dovevamo scavare i cunicoli con il trapano e poi portare via le macerie. A volte c'erano scoppi accidentali che causavano la morte di molti prigionieri.  Lavoravamo suddivisi in turni: dopo otto o dieci ore di durissimo lavoro forzato i prigionieri uscivano dai cunicoli bianchi come la neve a causa della polvere, per sprofondare nel sonno stanchi morti dopo una miserabile cena. Alcuni erano così magri che si vedevano tutte le ossa. Venivano chiamati “musulmani”, erano le prime vittime dell'arbitrio delle SS  e non avevano quasi nessuna speranza di sopravvivere. Solo chi era ancora in grado di lavorare aveva diritto a rimanere in vita. Alla Dora chi non era più in grado di lavorare era spacciato.
Qualche detenuto per la disperazione ha tentato la fuga, quasi sempre invano. Ricordo ancora benissimo di quando le SS picchiarono selvaggiamente un sinto che aveva tentato di scappare. Lo hanno costretto a gettarsi contro il filo spinato elettrificato e a gridare in continuazione “Hurrà! Sono tornato!”, finché non è crollato a terra. Poi lo hanno impiccato nel piazzale dell'appello. Alcuni giorni ci costringevano a stare in piedi per ore per fare l'appello, e questo ci terrorizzava a morte. Durante questa tortura, molti sono crollati a terra privi di forze e sono morti.
Alla fine del 1944, con l'avanzata del fronte russo, dovevamo essere trasferiti nel lager di Neuengamme, nei pressi di Amburgo. Siamo partiti da Harzungen [un campo di concentramento esterno della Dora] in circa 500 scortati da un kommando delle SS. Anche se eravamo completamente spossati dovevamo marciare tutto il giorno. La notte dormivamo nel bosco. Chi non riusciva più ad andare avanti si doveva sedere dentro un fossato e veniva ammazzato con un colpo alla nuca; poi il Volkssturm [milizia popolare nazista] seppelliva i corpi sul ciglio della strada. Quando finalmente siamo arrivati ad Oranienburg eravamo rimasti in pochi. Dovevamo arrestare l'avanzata dei carri armati russi da una trincea, mentre le SS erano già fuggite. Finalmente sono riuscito a scappare nella foresta e a raggiungere fortunosamente l'Austria. Avevo 18 anni quando sono riuscito a liberarmi. Ma non ho ritrovato nessuno della mia famiglia nel nostro villaggio natale. Solo nel 1950 per puro caso a Norimberga ho ritrovato due delle mie sorelle. Solo noi tre, di tutta la nostra famiglia, eravamo scampati al genocidio.
Signore e signori, per noi, i pochi sopravvissuti dell'olocausto, non c'è mai stata una vera liberazione. Ci sono esperienze e ricordi di quei tempi, dai quali non ci si libera mai, che ci si ripresentano sempre nei nostri sogni la notte.  Ho impiegato più di quaranta anni per riuscire a parlare delle terribili esperienze di allora. Oggi ne parlo come testimone di quell’epoca nelle scuole, per trasmettere alle giovani generazioni fino a quale punto “un ordine dello stato e della società senza Dio, senza coscienza e senza rispetto per la dignità umana” ha trascinato il popolo tedesco  (come è scritto nel preambolo della Costituzione dfella Baviera). E per contribuire a fare in modo che una cosa simile non possa mai più avvenire sul suolo tedesco. Per questo vi esorto: “Siete voi il futuro della Germania, fatene qualcosa di bello”.
Vi ringrazio per l'attenzione.