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Jürgen Johannesdotter

Obispo luterano, Alemania
 biografía

Un giorno, durante i primi mesi dei miei studi di teologia, ho sentito qualcuno spiegare che le persone in paradiso siederebbero a fianco a Dio e canterebbero tutto il tempo “alleluia”. “Oh no!”, gemetti in cuor mio. In quel momento, il paradiso, per quanta importanza conservasse nella mia giovane mente, perse qualcosa della sua immediatezza, se non qualcosa della sua gloria. Poi ho continuato i miei studi e ho compreso l’importanza di quel che significa realmente essere capaci di cantare alleluia sempre, in ogni giorno della propria vita. Il solo pensiero di ciò ha ri-orientato il mio mondo in una audace nuova direzione. E se il significato della vita stessa fosse stato quello di essere un lunghissimo momento di rendimento di grazie? In ciò davvero risiedeva l’autentico significato, l’autentica speranza della vita. Ma questo è possibile? Dio è un mistero in cui viviamo ogni momento di ogni giorno. L’unica domanda è: come? Che tipo di Dio è questo Dio che noi cerchiamo?
Dio è forse un gigante che deve essere ammansito una volta arrivati alla fine della vita? La vita è forse una corsa ad ostacoli destinata a dar merito solo al perfetto o al mansueto? Oppure la condizione umana è un insieme di doni avvolti nell’oscurità, il cui compito nella vita è di imparare a riconoscere la bontà divina in tutte le sue recondite forme? Di una cosa sono certo: la presenza di Dio nella vita richiede una contemplazione cosciente. Tutta la ricchezza e tutte le manifestazioni di Dio nella vita non possono essere ridotte alle risposte del catechismo. Eppure, allo stesso tempo, nel Dio che non è soggetto a semplificazione si trovano tutte le risposte di cui una persona ha bisogno per vivere una vita piena di fiducia nel visibile ed anche per accogliere il donarsi dell’invisibile. Il che significa: la vita stessa è un allenamento per imparare a cantare alleluia qui, al fine di riconoscere il volto di Dio nascosto nelle pieghe del tempo. Nella vita occuparsi del significato dell’alleluia significa affrontare momenti che non appaiono affatto momenti di alleluia. Ma come è possibile cantare alleluia nei momenti della vita che ci opprimono, che inaridiscono il nostro spirito, che sembrano meritare tutto tranne che la lode?
La domanda è sensata. La vita, dopo tutto, è una lotta, un percorso in uno spazio inesplorato, un allenamento a vincere come a perdere, alla gioia come al dispiacere. Nessuna vita è composta solamente di successo e soddisfazione, di sicurezza e auto-gratificazione. Il fallimento e la delusione, la sconfitta e il dolore sono fattori naturali dell’equazione umana. E allora? A che cosa serve allora un alleluia se non forse ad incoraggiare una qualche forma di auto-inganno emozionalmente insano? No, l’alleluia non è un sostituto della realtà. È semplicemente la coscienza di tutto un altro tipo di realtà – al di là dell’immediato, al di là della delusione, al di là della percezione istantanea delle cose.
L’alleluia, uno degli inni più antichi della Chiesa, significa semplicemente “ogni lode all’Uno che è”. È l’inno supremo di lode, la massima espressione di ringraziamento, il punto più alto del trionfo, l’acme della felicità umana. Esso afferma che Dio è Buono – e che noi lo sappiamo. Nelle scritture ebraiche la parola costituisce un’esortazione alla lode, un richiamo al popolo a esaltare la lode in se stessi. È una sfida a vedere nella vita più di quanto vi si può ravvisare in ogni singolo momento ed a fidarsene. Nelle scritture cristiane è una formula di lode. Soprattutto è una risposta intensamente emozionale che, nelle prassi liturgiche delle origini, veniva pronunciata in tutto l’anno, così come è ancora nella chiesa orientale, anche nelle liturgie funebri. Nella parte più antica della tradizione cristiana, quindi, [l’alleluia] ci esorta a vedere tutta la vita come dono di vita, comunque, in ogni caso, sia che percepiamo o meno il suo attuale donarsi.
Ogni segmento della vita è insieme dono e sfida, offerta e responsabilità. Quando si raggiungerà questa visione della vita, si comprenderà perché non si può cercare Dio senza cercare l’uomo.
Qualche anno fa, il Vescovo Vincenzo Paglia scrisse un breve libro: “La Bibbia ridona il cuore: Dio e l'uomo si cercano”.  Il primo capitolo si intitola “Cominciando con la Parola di Dio”.  Ci ricorda i due discepoli di Emmaus. “Non ardeva il cuor nostro in noi, mentre egli ci parlava per la via, e ci apriva le scritture?“ (Lc. 24,33) si dissero a vicenda alla fine di quel giorno cominciato con tale dolore. Avevano perso il proprio maestro e nel più tragico e terribile dei modi. I suoi avversari erano riusciti a farlo condannare a morte. Morì sulla croce. Tutto sembrava finito per sempre, ed anche la speranza di una nuova vita, che Lui aveva insinuato in loro e in molti altri, era stata distrutta. Non restava nulla da fare se non tornare a casa e riprendere le proprie vite come prima - difficilmente un ritorno ispirante. Più si allontanavano da Gerusalemme, più i loro cuori si riempivano della tristezza della rassegnazione. Mentre pensavano a queste cose, scrive Luca, uno sconosciuto si avvicinò e si unì a loro. Mentre camminavano insieme ascoltandolo, i loro pensieri cominciarono a placarsi e i loro cuori a scaldarsi. Alla fine del loro viaggio, si sentivano davvero felici. La speranza era stata ristabilita nei loro cuori. Si sentirono istintivamente attaccati a questo sconosciuto e sperarono che restasse con loro. Lo pregarono di rimanere per cena dato che ormai si stava facendo buio. Lui accettò l’invito e andò a cena con loro. L’Evangelista scrive che, quando “spezzò il pane”, i loro occhi si aprirono e compresero che quello sconosciuto era Gesù. Solo Lui sapeva spezzare il pane in quel modo. Provarono ad abbracciarlo, per farlo rimanere, ma Lui sparì.  Non videro mai più Gesù coi propri occhi, ma la speranza che era stata ristabilita nei loro cuori mentre camminavano lungo la strada iniziò ad ardere vivacemente. Non potevano rimanere chiusi in casa. Quel potente fuoco che ardeva dentro di loro li incitò a ritornare a Gerusalemme immediatamente. Come potevano tenere ciò che era appena successo per se stessi? Dovevano dire agli altri discepoli come avevano riconosciuto Gesù da come aveva spezzato il pane. Gesù era risorto!
Anche noi, come i due di Emmaus, dobbiamo accogliere quello sconosciuto tra noi. E spesso lo sconosciuto tra noi è proprio la Parola di Dio. È la Parola di Dio che ci aiuta a capire il Vangelo in modo da poter comprendere come Dio ci cerca. I due discepoli di Emmaus pensavano di aver perso Gesù. E poi hanno capito: è stato con noi per tutto il tempo. L’hanno riconosciuto dal modo in cui spezzò il pane. La Parola di Dio E l’Eucarestia – non “o …, o …”, no!: E. Il Vescovo Vincenzo disse: “Senza una comunità nella quale essere letta, la Sacra Scrittura diventa un testo arido e senza vita”.  Le due cose sono legate indissolubilmente.
“Cerchiamo Dio per trovare l’uomo”. La Bibbia racconta la storia di Dio, che, per il suo grande amore, venne sulla terra per cercare l’uomo. Racconta anche della ricerca di Dio da parte dell’uomo. Nella Bibbia, infatti, Dio e l’uomo si cercano a vicenda; si trovano e parlano insieme. La Bibbia ci insegna a conoscere il cuore di Dio, il Creatore che non può fare a meno dell’uomo. Ma ci fa scoprire anche i nostri stessi cuori, quando diventiamo consapevoli del nostro posto all’interno di una storia più grande: quella del Signore con la Sua gente. Possiamo ritrovarci tutti nelle pagine delle Scritture. È riportato dall’antica tradizione dei rabbini: “Leggete e rileggete la Torah, perché al suo interno vi è tutto e anche voi stessi, al suo interno, vi ritroverete pienamente e completamente“.
Un’autrice tedesca del 20esimo secolo - Ricarda Huch – ha detto: “La bibbia ci racconta molte vecchie storie che si ripeteranno nuovamente – giorno per giorno”.
Grazie.