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PONTI DI PACE
Bologna 16 ottobre 2018
PANEL 19
1968: un anno di svolta

L’anno 68 è stato un anno cruciale nella storia, nella mia storia personale e nella storia della mia generazione.
Non c’è un’unica faccia del 68, ve ne sono diverse. Una cosa caratteristica è che oggi tutta l’ultra destra in Europa, negli Stati Uniti e nell’Europa Centrale, è unita dall’odio per il 68, quell’odio è qualcosa che li unisce. Invece che cosa univa quella rivolta di cui parlava Wlodek Goldkorn?
E’ stata una contestazione. Guardando al ‘68 si possono trovare tanti punti in comune. Ad un primo sguardo sembrerebbero situazioni diverse, la primavera di Parigi ed il marzo di Varsavia: mi riferisco alle dimostrazioni a difesa dello spettacolo di  Adam Mickiewicz, un nostro poeta nazionale, e delle libertà accademiche, della cultura e delle scienze. La cosa più importante era la libertà. La libertà che a quella generazione era stata confiscata. Si combatte per riprenderla. Nel frattempo, a Ovest, si vedono i giovani che innalzano gli stemmi di Mao Zedong, Trockij, Che Guevara. E’ stata un qualcosa di contagioso, molte persone, anche io stesso, ripetevamo le parole di Che Guevara: “Fino a quando il mondo è così com’è io non voglio morire nel mio letto”. Certo è stato veramente solo una aspetto del ‘68 in Occidente.

Un secondo aspetto è legato a Martin Luther King. Lui non usava frasi rivoluzionarie, parlava di filosofia, di fare dei cambiamenti senza odiare, diventando poi lui stesso vittima dell’odio. Un dei punti che hanno accomunato occidente ed est Europa è stato il fatto che un’intera generazione non si ricordava più della guerra, non ricordava le brutalità dello stalinismo e del nazismo, convinta che dopo la caduta di Hitler, dopo la morte di Stalin, dopo Krusciov del ‘56, si potesse respirare un aria nuova. Da una parte, all’Ovest, simboli del male sono diventati la segregazione razziale e la guerra del Vietnam. Per noi, a Varsavia, a Praga, a Budapest, la questione decisiva è stata invece la primavera a Praga ed il desiderio di libertà, mentre ancora si parlava di un comunismo con una faccia umana. La speranza svanì dopo la primavera di Praga, dopo l’intervento sovietico e di altri Paesi ed il Patto di Varsavia: fu la fine del comunismo come di un progetto per il futuro e allo stesso tempo l’inizio di una visione nuova, quella di cui parlava anche Wlodek Goldkorn, di un nuovo sguardo, libero dal bagaglio della sinistra marxista, di Lenin.

In Polonia vi fu la presa di posizione dei vescovi polacchi a seguito di un intervento di polizia molto brutale all’università di Varsavia: allora i vescovi aprirono le porte delle chiese agli studenti picchiati, agendo in modo molto deciso contro la violenza. Quella repressione, in Polonia, fu accompagnata anche dall’antisemitismo. Questo è incomprensibile perché in Polonia, sotto i nostri occhi, i nazisti avevano compiuto l’Olocausto! Come è possibile, sulla terra di Auschwitz e Treblinka, tirare fuori la retorica e l’argomento antisemita? Lo fecero proprio i leader del partito comunista. Davvero sembrò una cosa incomprensibile. Ma, come ha detto Zygmunt Bauman all’epoca,  la fine dell’ideologia e la divisione fra l’intellighenzia e i comunisti, il fatto che il sistema comunista appariva ormai irriformabile, essendo divenuto un sistema che si auto conservava senza più contatto con le sue fonti e le sue origini positive. L’atteggiamento della Chiesa fu ambivalente di fronte alla campagna antisemita, per due motivi: in primo luogo dopo il Concilio Vaticano II, i vescovi polacchi temevano che le riforme del Concilio sarebbero state utilizzate dal regime per dividere la Chiesa. In secondo luogo, i vescovi, sin da subito, avevano capito che il nazionalismo poteva essere usato contro di loro. Bisogna ricordare la famosa lettera dei vescovi polacchi ai vescovi tedeschi durante il Concilio, che è un documento fondamentale per la storia della Chiesa in Polonia. Il governo protestò contro questa lettera: lì si vide che il governo parlava il linguaggio dello sciovinismo nazionalista, mentre i vescovi parlavano con il linguaggio del Vangelo. Quando nel 1968 prese avvio la campagna antisemita, molti vescovi pensarono che bisognava essere prudenti, perché gran parte della società condivideva l’antisemitismo e il nazionalismo e quindi, una loro posizione contraria poteva non essere compresa.

Questo è un esempio di come si inizia un conflitto culturale.
Dalla Cecoslovacchia giunsero in Polonia i film di tanti registi, la letteratura di Cabral, Kundera, Abel. In Polonia la cultura aveva posto in essere una opposizione molto ferma contro il comunismo. Il pensiero filosofico, quello sociologico, sono stati un colpo per il regime, che rispose a modo suo. Per questo Bauman, Klakowski, Brzozowski e gli altri furono mandati via dal Paese. In questo senso il marzo del ‘68 è stato una sconfitta in Polonia. È stata una sconfitta anche in Italia, Francia, in Messico. Ma vale la pena farsi una domanda: quale è il senso delle rivoluzioni sconfitte? A mio parere tutte quelle sconfitte avevano in sé elementi di qualcosa di nuovo. Così, all’interno della Chiesa, sorse un pensiero nuovo, diverso; iniziò il ravvicinamento con le società laiche, un ravvivato interesse per gli altri. Quando arrivò Dabrowski giunse anche un linguaggio nuovo nelle lettere pastorali, dell’episcopato in generale. Si iniziò a parlare, per esempio, dei diritti umani, veniva citato Albert Camus. E’ anche il linguaggio del Cardinale Karol Wojtyla. Le porte della Chiesa si aprirono, si aprirono anche ai contestatori; nelle chiese si tennero dibattiti, colloqui, cadde il muro tradizionale tra la Polonia cattolica e la Polonia laica, sorse qualcosa di nuovo. Caddero le tradizionali divisioni tra la tradizione cattolica e quella laica. La parola “sinistra” cessa di essere considerata una parola che approva il mercato, la democrazia liberale. Vediamo, peraltro, l’evoluzione nei regimi comunisti in direzione del nazionalismo: pensiamo alla Romania, alla Russia. Era possibile prevedere che l’ultimo stadio del comunismo sarebbe diventato il nazionalcomunismo. Se oggi pensiamo al ‘68, occorre ricordare che quella fu la generazione che dappertutto respinse il nazionalismo: in Francia, in Italia, in Germania, in Polonia, ovunque. Se oggi questa generazione è così odiata, dai così detti xenofobi, è perché quella generazione ha rigettato il nazionalismo, parlando la lingua cristiana: “Un solo gregge e un solo pastore”. Quando dopo anni, riflettiamo su questo, sul ruolo dei dissidenti in Polonia, ci chiediamo, chi è il modello del dissidente? Quando sui muri della Sorbona si scrisse: “siate realisti, chiedete l’impossibile”, ci chiediamo, in fondo, chi sia riuscito a realizzarlo. Giovanni Paolo II, Karol Wojtyla, fu il più grande dissidente polacco che è riuscito a portare al più grande cambiamento della storia, quello del 1989.
 

Trascrizione da audio registrato a cura di redazione www.santegidio.org