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Alberto Quattrucci

Secretary General of Peoples and Religions, Community of Sant’Egidio
 biography
1) Introduzione
Hadži Makso, della ricca famiglia ortodossa Despić, era un cristiano osservante e il pellegrinaggio in Palestina e a Gerusalemme lo aveva profondamente segnato, umanamente e spiritualmente. Nella sua bella casa che affacciava sulla Miljacka, il fiume che attraversa Sarajevo, non lontano dalla grande Biblioteca – quella che sarà poi bruciata nell’assedio del ’92 – per oltre 60 anni aveva amato ospitare tutti: si calcolano più di mille persone l’anno. 
Prima di morire, siamo nel 1921, scrive nel suo testamento: “…dopo la mia morte lascio ai poveri, senza distinzione di religione… ai deboli e ai bisognosi, ai vecchi e ai malati… ai poveri serbi mille dinari… ai poveri cattolici cinquecento dinari… ai poveri musulmani cinquecento dinari… ai poveri ebrei cinquecento dinari… - e concludeva – questo mio ordine serve solo per me, ma che sia di insegnamento a ogni fratello e amico che avrà un po’ di coscienza e buona ragione nella testa.”. 
Hadži Makso Despić era un uomo generoso, un cristiano che non aveva fatto della propria appartenenza alla fede ortodossa un motivo di superiorità o una ragione di giudizio nei confronti degli altri credenti, un uomo buono e lungimirante. 
Ma anche di più: era un vero cristiano balcanico, un figlio di quelle terre belle e miste, dove i confini si sono sempre confusi ed i popoli si sono sempre mescolati, dove le fedi si sono sempre incontrate e si sono sempre  parlate e, al di là della lingua, si sono capite: un mondo al plurale. Terre di mercati, di affari e di negoziati, di invasioni e di confusione, ma anche terre dove il vivere insieme è profondamente scritto nei cromosomi dei popoli e dei singoli uomini.
Ma la tragedia, in cui l’Europa si getta nel 1914 – inizia tutto da Sarajevo – comincia per i Balcani nel 1912. Porterà alla rovina gli Stati plurinazionali, e per primo l’Impero ottomano. Alla fine del 1918 il nazionalismo trionfa. Comincia la tragedia delle minoranze. E alla fine del secolo scorso: ancora la guerra … La Bosnia e Erzegovina è l’ultima delle repubbliche della ex Yugoslavia ad essere investita dalla guerra. E’ la repubblica più pacifista, disarmata ed innocente, dove il vivere insieme tra diversi è stata una realtà profondamente consolidata nei secoli e mai – nonostante le violenze irrazionali della guerra – mai sradicata nel profondo. E’ la città dove le pratiche di convivenza e l’interesse per la diversità culturale si sono affinate nei decenni e nei secoli, la città delle coppie miste, del grande peso cosmopolita. C’è orgoglio multiculturale nella città, nella borghesia e nella classe operaia. La guerra arriva anche a Sarajevo.
Tra le migliaia di uomini e donne, anziani e bambini, che partecipano nella città alla grande manifestazione per la pace del 4, 5 e 6 aprile del 1992, diversi vengono colpiti dai primi spari che cominciano ad uccidere. La crisi, a lungo annunziata, inizia formalmente sul ponte del fiume Miljacka. Lì viene uccisa Suada il 6 aprile, studentessa di medicina originaria di Dubrovnik, prima donna caduta negli attacchi. 
Si innesca allora una guerra folle, casuale e violenta, senza orientamento o logica alcuna. Dalle montagne, ogni giorno, proiettili e granate scandiscono il suono della vita quotidiana, per quasi quattro lunghi anni. Ogni giorno è una sfida, tra la morte e la vita. Si cerca di contenere il dolore, di non esibire al massimo le atrocità, in un’atmosfera di forzata normalità: si nasconde a se stessi e agli altri l’orrore, la paura, la disperazione. 
A Sarajevo la guerra ha aperto il secolo ventesimo e a Sarajevo lo ha chiuso, con l’ultimo conflitto balcanico. Si è articolata nei quattro anni della Bosnia, su fronti e con protagonisti diversi, gli uni contro gli altri, senza una logica né un progetto. Le religioni - cristiana, ebraica e islamica - che da sempre coesistevano in una città che si era distinta nei secoli per avere nel suo cuore i quattro luoghi vicini di preghiera, vengono stravolte ed usate per “identificarsi” contro il nemico. 
Non si è trattato di una guerra di religione, né di una guerra etnica. Si è trattato di un progetto violento e drammatico di spartizione di territorio, come è sempre la guerra, con un avvertimento chiaro: “non è possibile vivere insieme tra diversi”: questa la regola universale, questa la legge assoluta.
Ma ogni nazionalismo – politico o religioso che sia – non paga. Il nazionalismo è il peggior nemico di un vero amore per il proprio popolo e per la propria nazione. Ed ogni nazionalismo ha il fiato corto: prima o poi si ritorce contro i propri stessi vicini, connazionali o correligionari. Una violenza impazzita, come quella vissuta a Sarajevo dal ’92 al ’96, ha visto esseri umani uccidersi gli uni gli altri, anche all’interno della propria nazionalità o della propria fede religiosa. In guerra, alla fine, conta solo il proprio vantaggio personale e la propria sopravvivenza. 
Eppure… la volontà di “vivere insieme a Sarajevo” è sopravvissuta! In Sarajevo tiene, sino ad oggi, la tradizione pluralista, l’unità urbana, la realtà del vivere insieme. E’ scritto nel suo DNA, nella sua storia fin dalle origini del XV secolo. 
Nel XVI e XVII secolo diviene la grande Sarajevo ottomana, città grande e ricca, con più di cento moschee e altri diversi luoghi di culto cristiani. Sede di una grande Comunità ebraica sefardita, giunta dopo la cacciata dalla Spagna, nel 1492. Era la Comunità – altra drammatica coincidenza – che stava proprio festeggiando i cinquecento anni del suo insediamento quando, nell’aprile del ’92, scoppia la guerra.
Disperazione, causata dalla violenza, e visione fiduciosa di un futuro di pace: queste, da sempre, le caratteristiche di Sarajevo. Dagli ultimi anni del ‘600 fu invasa e rasa al suolo dall’esercito austriaco, poi ricostruita… ma conquistata alla fine dell’ottocento dall’autorità austro-ungarica. Non sono mai mancate guerre e conflitti, nella grande, multi-etnica e multi-religiosa Sarajevo, città della sofferenza e del sogno, delle difficoltà e della speranza, Gerusalemme dell’Europa. 
Due, sempre, le facce di Sarajevo: una buia e severa, l’altra luminosa ed amabile. La città della guerra e dei conflitti e quella dell’ordine e della bellezza del vivere insieme. La città del passato e del futuro, delle moltitudini di giovani che passeggiano alla sera lungo Ferhadjia e dei tanti cimiteri disseminati tra le case abitate. Questa è la città. Una città che si autoconsuma e muore, ma al tempo stesso nasce e si trasforma. 
Tanti i testimoni del dramma e della speranza, nella Sarajevo ferita e violentata. Scrive Marko Vešovič, oltre alle descrizioni delle atrocità a cui ha assistito: “…le 900.000 granate rovesciate sulla città non sono riuscite a maciullare l’umano in noi, su di noi, intorno a noi…”.
Sarajevo è allora un simbolo e soprattutto una grande sfida per il futuro, di Sarajevo ma di ogni città, dell’Europa ma di ogni società: la sfida del vivere insieme. La guerra e la violenza distrugge i ponti, bene lo vediamo a Sarajevo – pensiamo al simbolo del ponte di Mostar – ma senza ponti non c’è futuro.
La propria identità umana, culturale, religiosa, si trova nel dialogo, cioè nell’incontro autentico e profondo con l’altro. E’ l’incontro con l’altro che ci definisce, questo è molto chiaro nell’insegnamento di quei grandi, umili e piccoli ma universali, conosciuti o meno, disseminati nel cammino della storia. E gli uomini dei Balcani rappresentano forse gli europei più veri, contradditori e confusi, ma autentici e disponibili, interessati sempre all’incontro.
Il messaggio di Sarajevo è molto prezioso per l’Europa.
 
2) Giovanni Paolo II e Papa Francesco
La storica visita del papa Giovanni Paolo II a Sarajevo - era l’aprile del 1997.
Appena atterrato a Sarajevo, era il 12 aprile, Giovanni Paolo gridò: “Mai più la guerra, mai più l'odio e l'intolleranza! Questo ci insegna il secolo, questo il millennio che stanno ormai per concludersi… Alla logica disumana della violenza è necessario sostituire la logica costruttiva della pace… Conceda Iddio alla Bosnia ed Erzegovina, a tutte le popolazioni dei Balcani, dell'Europa e del mondo che il tempo della pace nella giustizia non abbia termine mai.”. 
Rivolgendosi poi, in incontri differenti, ai credenti delle diverse confessioni religiose, affermò: “Il metodo del dialogo, perseguito con perseveranza e in profondità, deve segnare anzitutto il rapporto dei cattolici con i fratelli ortodossi, e con gli altri fratelli cristiani… Con parola cordiale e atteggiamento sincero i cristiani cerchino poi motivi d’incontro e di comprensione con i seguaci dell'Islam, affinché si possa costruire una convivenza pacifica… e tutti, con gli ebrei, camminiamo coraggiosamente come veri fratelli ed eredi delle promesse, sulla via della riconciliazione e del reciproco perdono.”
Quindi, prima di ripartire, quella domenica 13 aprile, ribadì: “In procinto di ritornare a Roma, permettetemi di ripetere le parole: Mai più la guerra!... Per la Bosnia ed Erzegovina questo è veramente il tempo di costruire la pace. Per riuscire in una impresa tanto impegnativa, bisogna fare appello alle vostre migliori energie ed alla collaborazione con tutti gli abitanti della vostra terra, nella consapevolezza che tutti gli uomini sono fratelli, perché tutti sono figli dell'unico Dio.”
La visita di Papa Francesco, 6 giugno 2015.
“Questa città, che nel recente passato è tristemente diventata un simbolo della guerra e delle sue distruzioni, questa Gerusalemme d’Europa, oggi, con la sua varietà di popoli, culture e religioni, può diventare nuovamente segno di unità, luogo in cui la diversità non rappresenti una minaccia, ma una ricchezza e un’opportunità per crescere insieme. In un mondo purtroppo ancora lacerato da conflitti, questa terra può diventare un messaggio: attestare che è possibile vivere uno accanto all’altro, nella diversità ma nella comune umanità, costruendo insieme un futuro di pace e di fratellanza. Si può vivere facendo la pace!”
 
3) Il cardinale Puljic
Essere cristiani a Sarajevo: la vita e l’esperienza pastorale, così eloquente, del cardinale Vinko Puljić, noto per essere un simbolo della lunga guerra subita dalla città bosniaca dal 1992 al 1995.  In lui si realizza in modo semplice e profondo, sereno e quotidiano, lo spirito più autentico della Chiesa descritta dal Concilio Vaticano II. 
I cattolici oggi in Bosnia –l’ultimo censimento risale a prima della guerra- ma sono sicuramente meno della metà di quegli 820.000 che erano nel 1991. Eppure i cattolici sono parte integrante e ineludibile della storia della Bosnia-Erzegovina, che cattolica era interamente fino alla conquista ottomana del XV secolo, e che ebbe la sua grande fase di modernizzazione nel periodo asburgico (1878-1918) proprio a opera di cittadini cattolici di tante parti dell’impero austro-ungarico, giunto in Bosnia-Erzegovina e gradualmente qui radicatisi e assimilatesi all’elemento croato della regione. Lo scrive Roberto Morozzo della Rocca nel bel libro “Cristiani a Sarajevo”, intervista al cardinal Puljić di cui dice: “… uno che ha subito tanti attentati e ha visto spesso la morte in faccia, deve saper ironizzare e scherzare, per non drammatizzare e perdere la testa.”.
Nel volume il cardinale parla della sua storia, fin dall’infanzia: “… noi cattolici stavamo insieme in chiesa. Ma giocavamo con musulmani e serbi. Il mio popolo non si chiamava bosniaco. Eravamo semplicemente cattolici, musulmani e serbi ortodossi.”. Attraverso questa storia ben si comprende il mondo della Bosnia-Erzegovina e di Sarajevo, insieme alla vocazione dei cristiani –anche quando ormai minoranza- a creare un clima di convivenza e di tolleranza, a vivere con gli altri senza rinunciare alla propria identità, ma ponendola al servizio del bene comune, al servizio dell’uomo.
Il sacerdote Vinko Puljić racconta: “Prima di andare al seminario minore parlai con un mio parrocchiano, un uomo molto semplice ed onesto. Mi chiese: ‘Padre, per quale motivo è così preoccupato?’. Si era accorto che temevo il nuovo incarico: ‘Padre, ha paura? Vada pure. Se ha cuore per l’uomo, non bisogna aver paura’. Mi piacque molto ‘Quando si ha cuore per l’uomo, non bisogna avere paura’. Con questo consiglio ho cominciato nel 1978 il mio ministero come padre spirituale al seminario minore di Zara.”.
Questo “cuore per l’uomo” diventerà una costante della preoccupazione pastorale di Vinko Puljić, in modo particolare da quando, verso la fine di novembre del 1990, arriva la notizia della sua nomina ad Arcivescovo di Sarajevo. Questa dimensione pastorale e spirituale, così profondamente inscritta nello spirito del Vaticano II e tanto vicina agli uomini e alle donne delle strade di Sarajevo –tanti musulmani guardavano e guardano a lui come al loro cardinale…- fu vissuta da allora, ma forse lo era già da prima, in intensa comunione con Giovanni Paolo II.
Di lui dice Puljić nel libro-intervista: “… venne l’elezione di Giovanni Paolo II e ci entusiasmò perché era uno slavo… questo papa muoveva tutta la Chiesa e subito apriva una porta sull’avvenire con la sua esperienza del comunismo.” E continua più oltre –parlando della lettera scritta dal Papa per nominarlo vescovo- : “… il Santo Padre mi scriveva: ‘Non posso sapere, dandoti questa croce pettorale, quanto sarà pesante, ma vorrei non pesasse troppo’. Giovanni Paolo II seguiva tutto di Sarajevo e di questo Paese. Ero stato nominato con insistenza da lui, ma poi mi fu molto vicino… aveva una grande cuore per il popolo sofferente: questo mi colpiva molto. Non solo si preoccupava dei cattolici, ma di tutti i sofferenti.”.
Nel rapporto con Sarajevo e la Bosnia troviamo un tratto molto espressivo dell’umanità di Giovanni Paolo II. Così lo descrive Puljić: “Il Santo Padre chiedeva e ascoltava molto. Mi invitò ad Assisi, alla grande preghiera per la pace in Jugoslavia. Dopo questa cerimonia, mi portò con sé a cena… voleva capire tutto, proprio come un padre. Era molto sensibile. Io ne ero profondamente commosso. Dopo la cena gli ho chiesto la benedizione… ‘Non solo per te e per la tua diocesi, anche per il tuo Paese, per la pace nel tuo Paese’… da questo momento in poi, ogni volta che venivo a Roma, mi invitava a mangiare con lui e a parlare.” 
E il racconto continua: “… tante volte il papa interveniva contro la guerra. Infine nel 1994 mi diede un telefono cellulare per avere un contatto diretto con me e mi disse: ‘Io voglio venire’… la visita fu prevista per l’8 settembre 1994. Il papa voleva visitare anche la Croazia, ma partendo da Sarajevo…. il 6 settembre ricevetti la notizia che non sarebbe potuto venire a Sarajevo…”.
Un cattolico in Bosnia sente ogni giorno la sfida di vivere con gli altri. “Noi -afferma Puljić- viviamo con i musulmani. Pensiamo che è possibile vivere insieme a loro. Bisogna vivere insieme ma nella diversità, con la propria identità… purtroppo la comunità internazionale non aiuta in questo senso… in Bosnia occorre uno Stato dove ci sentiamo tutti a casa, non uno Stato con cittadini diseguali.”. 
Così il cardinale era davvero “di tutti”. Quando usciva in segreto dalla città avvisava… tornato tutti gli chiedevano: dove siete andato? Tutti, non solo i cattolici…per tutti l’arcivescovo era un segno di sicurezza e di verità. Anche i musulmani, gli ebrei e gli ortodossi che vivevano a Sarajevo dicevano ‘nostro’, perché era vicino al popolo. Davvero la Chiesa, soprattutto nel tempo drammatico della guerra, ha difeso l’uomo. Tutti infatti guardavano alla Chiesa come a un simbolo di pace. Quando c’erano sessioni del parlamento l’arcivescovo alzava la voce e ricordava: “fate quello che volete, ma non cancellate l’uomo!”.
Monsignor Puljić, non ancora cardinale, riuscì a partecipare nel 1993 -durante la guerra- all’Incontro Internazionale di Milano promosso dalla Comunità di Sant’Egidio. Lì ha detto in una conferenza: “Dico ai fratelli ortodossi e musulmani: siamo tutti figli del Dio Onnipotente… siamo dunque fratelli al di là delle nostre differenze di nazionalità, religione, cultura…” e proponeva: “Uniamo i nostri sforzi nella sincerità e solidarietà umana perché la religione torni a essere fattore di unione e di comprensione, di rispetto per l’uomo in quanto tale, coscienza critica di questo mondo che si è allontanato da Dio, e quindi anche dall’uomo, con le conseguenze che ora vediamo.”.
In sintesi. Essere cristiani a Sarajevo significa amare, servire, difendere l’uomo prima di tutto e al di là di tutto. Ogni uomo e tutti gli uomini. E’ questo lo spirito più  genuino della Chiesa così  come ridisegnata dal Concilio Vaticano II e dai papi che da allora il Concilio lo hanno vissuto e diffuso. Questo la Chiesa di Sarajevo, a partire dal suo Arcivescovo, lo sa, lo vive e lo testimonia.
E’ il messaggio che oggi i cristiani di Sarajevo rivolgono ai tanti rappresentanti religiosi che arriveranno nella città bosniaca dal 9 al 11 settembre prossimo, quasi il loro benvenuto: “Bisogna rispettare ogni fede e l’uomo. Bisogna rispettare la coscienza. Possiamo lavorare insieme, tutti insieme nel grande cantiere della pace, per l’educazione, per difendere la vita, per la solidarietà, per la giustizia. Quando l’uomo vuole vivere ha bisogno di pane. Il lavoro per il pane unisce tutti. Ma uniscono anche i diritti umani, la pace, l’uguaglianza nel rispetto di ogni identità…”.
 
4) Conclusioni
Scrive in un bel passaggio Zygmunt Bauman sul ponte : “…se considerate un ponte e provate a stabilire la sua forza di portata non dovete considerare la forza di portata di ogni pilastro e sommare il totale per poi dividere per il numero dei pilastri – non potete considerare la media portata come portata di un pilastro medio. Ma potete misurare la forza di portata del ponte attraverso la forza di portata del pilastro più debole. 
Sfortunatamente nel nostro mondo si misura il benessere di una società attraverso il Prodotto Nazionale Lordo, e il Prodotto Nazionale Lordo è precisamente come la misurazione della forza di portata di un ponte attraverso la forza di portata media, il pilastro medio. Questo è sbagliato, perché la qualità con cui si misura una società è la decenza della vita del più debole.” 
Le religioni, in tempi difficili, in tempi di crisi, sono oggi chiamate a lavorare in profonda sinergia con la politica per costruire una società più umana per tutti: dobbiamo costruire la nostra società come un ponte che possa condurre noi e le nuove generazioni verso un terzo millennio più umano.