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Graziano Delrio

Parlementaire, Italie
 biographie
Buongiorno a tutti. Per prima cosa voglio ringraziarvi per questo invito. Mi fa molto piacere essere qui con voi, oggi, a Bologna. Mi fa molto piacere avere l’occasione di parlare – e soprattutto ascoltare, visto il livello degli ospiti – di un tema, quello dell’educazione ambientale e dello sviluppo sostenibile, che mi sta molto a cuore e che è decisivo per il nostro futuro, per quello delle generazioni che verranno dopo di noi.
 
Inizio, però, con un passo indietro. Breve, perché si tratta di andare a due anni fa, a una piccola località sulla quale gli occhi del mondo si sono posati solo per poco tempo – il tempo in cui, ormai, un avvenimento fa notizia – e che invece ha parecchio da insegnarci.
 
La località è un’isola. Si chiama Chiloé, e si trova lungo la costa sud del Cile. 
 
Tutta l’area attorno a Chiloé è stata teatro, nella primavera del 2016, di un disastro senza precedenti, per il continente sudamericano. Per chilometri e chilometri, in mare aperto, si è formata una “marea rossa” di alghe tossiche che si è estesa alle coste e ha portato a una vera e propria distruzione di massa di pesci, granchi e altre specie di crostacei e molluschi. Con l’economia basata sulla pesca in ginocchio e il conseguente carico di disperazione per migliaia di piccoli pescatori, di lavoratori legati al settore e delle loro famiglie.
 
Colpa dell’aumento delle temperature delle acque marine dovuto ai cambiamenti climatici, hanno detto gli studiosi. Ma non solo, hanno aggiunto. Colpa anche dell’allevamento intensivo, intensivo fino all’eccesso, dei salmoni. Ammassati nelle gabbie, nutriti all’inverosimile con prodotti alimentari che finiscono per depositarsi sui fondali danneggiandone la flora e causando la proliferazione di microrganismi nocivi. E se a tutto questo si aggiunge l’autorizzazione data alle industrie del salmone di scaricare nel Pacifico migliaia di tonnellate di esemplari morti per soffocamento proprio per le condizioni in cui erano costretti, ecco spiegato il catastrofico risultato finale.
 
Insomma, una sovrapposizione di fattori ambientali e antropogenici. Legati cioè all’intervento dell’uomo, alla sua azione. 
 
In questo caso, l’azione di gigantesche industrie interessate esclusivamente alla ricerca dell’immediato tornaconto e perciò impegnate nel massimo sfruttamento delle risorse. Seguendo un modello di business che ignora clamorosamente le capacità di carico dei fragili ecosistemi locali.
 
Cosa ci racconta questa vicenda? Ci racconta che i problemi ecologici non sono questioni a sé stanti. Ci racconta, in un modo purtroppo terribilmente chiaro, che non esistono due crisi separate, una ambientale e una economico-sociale. E diciamolo: morale.
 
Davvero “tutto è collegato”, come ha sottolineato – e come continua a fare senza sosta – Papa Francesco, nella sua enciclica Laudato sì. 
 
Un’enciclica che pone al centro una domanda pressante, epocale: “Che tipo di mondo desideriamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo?”. 
 
“Questa domanda”, prosegue Papa Francesco, “non riguarda solo l’ambiente in modo isolato, perché non si può porre la questione in maniera parziale. Quando ci interroghiamo circa il mondo che vogliamo lasciare in eredità, ci riferiamo soprattutto al suo orientamento generale, al suo senso, ai suoi valori. Se non pulsa in esse questa domanda di fondo, non credo che le nostre preoccupazioni ecologiche possano ottenere effetti importanti”.
 
Il problema, pensando proprio a questo “orientamento generale”, è che il mondo, il mondo occidentale innanzitutto, si trova ad affrontare, oggi, una grande crisi. 
 
Una crisi strutturale e culturale, che ha molti nomi: finanziarizzazione dell’economia, tramonto dell’etica del capitalismo, aumento delle disuguaglianze, blocco dell’ascensore sociale. E, appunto, inerzia, per non dire noncuranza, di fronte alla questione ambientale, di fronte alla finitezza delle nostre risorse e al loro continuo e costante saccheggio.
 
Eppure, non ci vuole molto per capire la portata della situazione in cui ci troviamo. In questo 2018, già dallo scorso 1° agosto siamo “in rosso”, abbiamo cioè esaurito le risorse prodotte quest’anno dalla Terra. Vale a dire che tutto ciò che stiamo consumando e che consumeremo nei prossimi mesi sarà al di là di quel che la natura fornisce in modo rinnovabile. Il 1° agosto è stato il giorno, insomma, in cui il “reddito annuale” a nostra disposizione è finito: noi tutti stiamo vivendo chiedendo un prestito al futuro, cioè togliendo ricchezza ai nostri figli e ai nostri nipoti.
 
E il problema è che la situazione peggiora costantemente, perché questa data sta arrivando sempre prima. Nel 1961 metà della Terra era sufficiente per soddisfare le nostre necessità. Il primo anno in cui l’umanità ha utilizzato più risorse di quelle offerte dalla biocapacità del pianeta è stato il 1986, ma quella volta il cartellino rosso si alzò il 31 dicembre: il danno era ancora moderato. Nel 1995 la fase del sovraconsumo aveva già mangiato più di un mese di calendario: a partire dal 21 novembre la quantità di legname, fibre, animali, verdure divorati andava oltre la capacità degli ecosistemi di rigenerarsi. Nel 2005 l’Earth Overshoot Day è caduto il 2 ottobre. E ora eccoci, appunto, al 1° agosto. Sette giorni prima rispetto a due anni fa. 
 
Ci rendiamo conto o no che fra non molti anni – se non si prenderanno provvedimenti – il rosso scatterà il 1° luglio, e allora vorrà dire che in pratica avremo bisogno di un secondo pianeta a disposizione?  
 
È evidente, di fronte a tutto questo, che c’è un’unica strada: ripensare il nostro modello di consumi e di sviluppo. All’economia predatoria “mordi e fuggi” e alle relazioni imperniate su un’esasperata competizione vanno sostituiti un approccio, una visione, un insieme di comportamenti, che superino la dicotomia tra sviluppo e sostenibilità. 
 
Che ascoltino il lamento della Terra e dei poveri, degli ultimi. 
 
Che “allineino” l’etica e l’economia, mettendo al centro il rispetto della natura e i bisogni delle persone. 
 
Che diano spazio e valore a una mentalità diversa, di tipo cooperativo, all’interno di un solido sistema di appartenenza alla propria comunità.  
 
È un mutamento culturale profondissimo, quello che siamo chiamati a fare, è vero. E non c’è dubbio, a tal proposito, che per generare nelle persone e nelle società umane cambi tanto significativi di comportamento è fondamentale un’opera di educazione ambientale e allo sviluppo sostenibile. Un’opera di diffusione della conoscenza e di moltiplicazione di “buone pratiche” che coinvolga le scuole, le associazioni, i mezzi di comunicazione. Le istituzioni e la politica, ovviamente. Le amministrazioni, perché comunità significa territorio, significa città.
 
Io sono molto legato all’esperienza fatta come amministratore. E probabilmente è anche per questo che credo sia soprattutto qui che si vincerà o si perderà la sfida, che si potrà affermare o meno una nuova visione, una visione “integrata”, delle diverse dimensioni dello sviluppo.
 
Competizione o scambio. Chiusura o apertura. Esclusione o inclusione. Scontro o convivenza. 
 
In un Paese come il nostro, così come in tanti altri, non è forse nelle città che si gioca la partita decisiva per approdare a determinati esiti e non ad altri? Per far crescere quegli elementi senza i quali una società non può dirsi tale, non può essere coesa, e cioè partecipazione, civismo, fiducia, condivisione? 
 
Non è la sede questa, e comunque io oggi non voglio farlo, per polemizzare su quel che i governi recenti hanno fatto in proposito e su quel che invece (non) si sta facendo oggi, ad esempio tagliando risorse preziose su cui tanti Comuni, di ogni colore, facevano affidamento.
 
Dico solo che c’è un motivo di fondo se avevamo messo a punto quel Programma per le periferie di cui avrebbero beneficiato molte città italiane. 
 
L’abbiamo fatto perché è qui che si misurano molti aspetti dai quali dipende la qualità della vita dei cittadini. È qui che le persone subiscono di più forme di esclusione derivanti da una condizione di isolamento fisico e funzionale, dall’assenza di opportunità di incontro e relazioni sociali. Quando invece le periferie devono essere luoghi in cui creare presidi educativi e sociali, in cui attuare progetti di valorizzazione, di infrastrutturazione e, come ha detto tante volte Renzo Piano, di vero e proprio “rammendo urbano”.
 
Che questo momento storico sia dominato da un diffuso sentimento di paura, che questa nostra sia definita “l’epoca dell’insicurezza”, è cosa ormai nota e acquisita. Si tratta di un’insicurezza, percepita o ben concreta, che assume di volta in volta volti ed effetti diversi.
 
C’è una gamma infinita di paure: paura della globalizzazione, paura della crisi economica e delle conseguenze che ha su di noi, paura del cibo che fa male e avvelena i nostri figli, paura del terrorismo, paura della solitudine, paura del vicino di casa, paura dei rapporti umani e in generale paura “dell’altro”.
 
Per tutte queste ragioni è facile che si finisca per andare alla ricerca di un rifugio sicuro, che diventi sempre più forte la “voglia di territorio”, inteso come chiusura, come protezione all’interno di un luogo dove non ci sono estranei, non ci sono incognite. Lungo questa strada, l’esclusione diventa l’unico falso antidoto, l’unica apparente risposta, al di là dalla reale entità dei rischi e dei pericoli. 
 
E allora succede che ci si difende e poi ci si chiude. Si è estranei e poi ostili. Intolleranti e poi razzisti. E così il tessuto sociale si logora fino a strapparsi. Così prevale l’egoismo, l’individualismo, la tentazione terribile del farsi giustizia da sé e comunque l’affievolirsi di quel senso civico, di quel sentimento di appartenenza comune, senza il quale una comunità non è tale. 
 
Se tutto questo è vero, non sono forse proprio le città, ripeto, uno dei terreni decisivi – io credo, ripeto, “il” terreno decisivo – in cui si giocano le sfide più importanti? Non è proprio qui che si misurano da vicino le difficoltà economiche, le paure sociali e le fragilità politiche delle società occidentali?
 
Ne era convinto un grande sociologo come Bauman, il quale sottolineava come le città – metropoli o megacities, di qualunque dimensione siano e comunque le vogliamo chiamare – siano oggi il vero “terreno di discarica di problemi prodotti a livello globale”. “Sono diventate – diceva – campi di battaglia dove oggi si scontrano i valori della sicurezza e quelli della libertà, l’amore per il rinnovamento e la paura dei cambiamenti, l’amore per il melting pot e la paura delle mescolanze,  i processi di disgregazione e quelli di integrazione. Tutto ciò ne fa dei veri laboratori locali, dove vengono sperimentate le capacità di convivere, su un pianeta globalizzato, con le differenze e con gli stranieri”.
 
Insomma, la grande sfida delle città, nel tempo dell’insicurezza, è quella di assicurare alle nostre comunità coesione e sviluppo sostenibile dal punto sociale, oltre che ambientale. 
 
Per questo dobbiamo sperare che non vengano cancellati, per quanto riguarda l’Italia i passi compiuti negli ultimi anni, sottoscrivendo nel settembre 2015 l’Agenda 2030, e i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni unite, Consegnando a luglio del 2016 alle stesse Nazioni Unite un “Rapporto nazionale sullo sviluppo urbano sostenibile” che individua, tra gli altri campi d’azione, il sostegno ai settori collegati alla green economy, la riduzione dei consumi energetici, la ricerca e lo sviluppo di tecnologie in grado di abbattere la produzione di emissioni e di rifiuti, la promozione della mobilità sostenibile.
 
Penso anche, poi, a una misura di contrasto nazionale della povertà come il Rei, il Reddito di inclusione. O ancora al fatto di aver posto il Paese all’avanguardia nella programmazione economica dotando la Legge di Bilancio di uno strumento innovativo come gli indicatori del Benessere equo e sostenibile (Bes). 
 
Ma ripeto: non voglio aprire, qui, una discussione sulle scelte dei governi passati rispetto a quelle del governo attuale.
 
Preferisco spendere qualche ultima parola sulla necessità di provare a rendere concreti, di far vivere all’interno delle nostre società, delle nostre comunità, due principi a mio avviso fondamentali: quello della “finitezza” e quello della “reciprocità”, e cioè del limite che ognuno consapevolmente si dà sapendo che il completamento di sé dipende dall’incontro con gli altri, sapendo che c’è un grande valore nell’assunzione della reciproca responsabilità che ci lega gli uni agli altri, e che un’etica e una politica adeguate al nostro tempo possono nascere solo nel momento in cui riusciamo “a mettere in accordo”, come ha scritto il filosofo Salvatore Natoli, “il sentimento della nostra libertà con quello della comunità”.
 
Finitezza e reciprocità. È su questi principi che io credo potremo fare affidamento per scongiurare i rischi più grandi che le sfide di questo tempo ci consegnano e imboccare l’unica strada possibile: quella di una crescita rispettosa dell’equilibrio ecologico e della coesione sociale.
 
Sono sfide gigantesche e complesse, è vero. E forse, almeno in certe occasioni – perché ce ne sono moltissime altre in cui le differenze sono ben percepibili ed è giusto che ci siano – dovremmo tutti cercare di uscire dalle polemiche contingenti e seguire, per trovare le giuste soluzioni, l’insegnamento di Don Primo Mazzolari, che aveva tra i suoi motti preferiti: “Non a destra né a sinistra, né al centro: ma in alto”. 
 


Discorso di Graziano Del Rio
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