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Adriana Gulotta

Comunidad de Sant'Egidio, Italia
 biografía

 L’Europa è un continente ricco, dove si vive meglio al mondo, dove la vita dei piccoli è più protetta. Eppure, oggi l’insicurezza sembra paralizzare le nostre società e spinge a guardare con sospetto non solo i migranti, ma anche quanti sembrano “diversi”. Gli europei si scoprono impauriti e fragili. Si parla di costruire muri, si chiudono i porti, ci si sente minacciati dentro le proprie case, nonostante i reati diminuiscano. Seppure l’Europa sia il continente più sicuro in cui vivere, l’insicurezza prevale. 

 
La globalizzazione sembra aver tolto punti di riferimento. L’individuo si sente spaesato e solo e viene meno il senso di sicurezza garantito dal passato. La paura si fa, nei più giovani, ansia esistenziale, più forte nelle periferie esposte alla precarietà. Si cerca di riaffermare la propria identità, affidandosi a leader forti visti come una garanzia in un mondo in continuo cambiamento. Al disagio sociale di tanti giovani, soli e insicuri, si aggiunge la mancata integrazione degli immigrati. Ne emerge una realtà di competizione e violenza quotidiana tra giovani senza opportunità e immigrati, capro espiatorio della loro difficile condizione. Gli episodi di intolleranza e di razzismo si moltiplicano. Antisemitismo, antigitanismo, islamofobia rischiano di diventare esperienza quotidiana di giovani insicuri e aggressivi. 
 
Come è noto, in campo psicologico il senso di sicurezza si costruisce nei bambini fin dai primi giorni di vita, nello scambio con i genitori che si prendono cura dei figli. Queste prime esperienze che creano fiducia verso gli altri, entrano addirittura nei nostri circuiti cerebrali e ci consentono, man mano che si cresce, di fare le prime esplorazioni dell’ambiente intorno, ampliandosi sempre di più. Il senso di appartenere ad una famiglia e ad una comunità sociale rafforza ulteriormente la sicurezza dei bambini.
 
Questo percorso di crescita della sicurezza infantile, oggi, in Europa, rischia di incepparsi fin dai primi anni, perché i genitori da una parte cercano di proteggere i figli, dall’altra spesso instillano in loro sfiducia verso il mondo esterno, percepito come una minaccia. L’identità personale e familiare diviene la fortezza in cui rinchiudersi e riaffermare i propri confini personali, in opposizione agli altri.  Basta vedere come si comportano a volte i genitori nei confronti della scuola, verso cui manifestano sfiducia e persino ostilità perché ritengono che gli insegnanti non comprendono abbastanza le difficoltà dei propri figli. La scuola europea -obbligatoria e gratuita, fra le più grandi conquiste del continente- è delegittimata dalla famiglia. Così l’agenzia educativa più importante nella vita dei bambini e dei ragazzi abdica al suo ruolo e si restringe solo sull’istruzione. L’educazione rimane affidata solo alle famiglie, spesso fragili e instabili che si trovano in difficoltà. E allora con insistenza si ripropongono politiche pubbliche incentrate sul controllo e la punizione dei giovani: abbassare l’età imputabile, che paesi come l’Italia e la Spagna hanno mantenuto a 14 anni, mentre altri l’hanno da tempo abbassata a dodici o persino dieci anni. Inasprire le pene incentrandole sulla reclusione e non sul recupero. Si tratta di proposte di cui da tempo sono state sperimentate l’inutilità e dannosità. Tuttavia rappresentano in maniera eloquente la fuga dalla responsabilità da parte di una società adulta che sceglie di non sentirsi responsabile dei propri piccoli e intende punirli senza la fatica di educare e di orientarne le scelte.
 
In questo quadro complesso e contraddittorio l’Europa, continente della pace e della democrazia, ha di fronte a sé la sfida di educare e far crescere i suoi giovani, in grado di conoscere e non temere la diversità, e di integrare le seconde e terze generazioni che aspirano a una vita migliore dei loro genitori. Ma tensioni sociali, episodi di xenofobia, intolleranza, razzismo sembrano mostrare che la convivenza è difficile. Una cultura individualistica incentiva competizione e aggressività.
 
Imparare a vivere insieme è sempre di più, oggi, il volto della pace, in questo nostro continente da tempo senza guerre. Creare luoghi dove si sperimenti la convivenza pacifica, specie in contesti urbanizzati complessi e conflittuali, è estremamente necessario. Di fronte a uno scenario, dove non mancano i cattivi maestri che incitano, sul web e nella società, al conflitto e all’odio, si sente l’esigenza di moltiplicare le energie per educare le giovani generazioni. Al centro del lavoro di Sant’Egidio c’è l’impegno a insegnare a vivere in pace e a convivere tra diversi. Nelle tante periferie europee, le Scuole della Pace, centri pomeridiani gratuiti tenuti da giovani volontari, si rivolgono a bambini, di provenienze e culture diverse, che rischiano di essere imprigionati dall’insicurezza e dall’aggressività. Studio, attività, giochi, gite e vacanze sono veicoli di una nuova cultura di apertura all’altro e alla diversità. 
 
Un giovane che volontariamente e gratuitamente si fa vicino a un bambino o un ragazzo che aiuta un anziano, cominciano a comprendere che la debolezza è parte della vita e non va temuta né esorcizzata. Ciò produce un cambiamento psicologico e antropologico importante. Nel deserto emotivo carico di insicurezze che è la vita di tanti ragazzi, la tenerezza per un piccolo o un debole diviene un elemento di forza e di empatia. Ci si libera della cultura del nemico e si comincia a sperimentare la cultura della solidarietà verso chi è più debole. Nelle Scuole della Pace di Sant’Egidio, oltre a un sostegno scolastico e affettivo, si offre a piccoli di diversa provenienza, la possibilità di imparare a crescere insieme senza pregiudizi e ostilità, rafforzando quella sicurezza indispensabile per andare incontro all’altro senza paura. Si conosce, così, da vicino, senza timore e con simpatia, nel “diverso”, semplicemente l’altro. Così si scopre che il ragazzo immigrato, considerato uno straniero ha gli stessi sentimenti e le stesse paure, seppure con un vissuto assai più doloroso.
 
Si impara a essere europei insieme a coloro che sono arrivati nel nostro continente e sono divenuti “nuovi europei”. 
 
Nonostante oggi si senta assai spesso parlare male dell’Europa, è necessario far conoscere meglio ai più giovani il volto di un continente che dopo la Seconda guerra mondiale, ha fatto della pace e della difesa dei diritti umani la sua bandiera. Che ha eliminato la pena di morte e della cui abolizione ha fatto una delle pre-condizioni per aderire all’Unione. Che ha sostenuto la democrazia e lottato per la libertà e non più di 30 anni fa, si è liberata delle dittature comuniste, attraverso rivolte pacifiche di milioni di persone, senza spargimento di sangue. Che è stata capace di integrare differenti etnie e religioni, nel rispetto dei diritti di ciascuno, dando vita a una produzione intellettuale e artistica considerevole. “Le radici dell’Europa -ha affermato papa Francesco- si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare, in sintesi sempre nuove, le culture più diverse. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale”. 
 
E’ un continente che ha scelto di superare antichi odii e ostilità attraverso l’unione e il vincolo di solidarietà e ha mostrato che un nuovo inizio era possibile, dopo anni di tragici conflitti culminati in due guerre mondiali. Nell’orrore bellico che ha distrutto milioni di vite, si è consumata la Shoah, con un sovvertimento della morale che non può più essere accettato e di fronte a cui le nuove generazioni vanno aiutate a soffermarsi e a scegliere. Un sovvertimento in cui, attraverso una propaganda fuorviante, il bene era diventato male e il male veniva fatto passare come bene. L’empatia verso i perseguitati, gli ebrei, i rom era vietata come una debolezza e perseguita con la morte, mentre l’odio veniva promosso e valorizzato come coraggio. È necessario far conoscere i frutti di quell’Europa: guerra, distruzione, Shoah e non dimenticare. Per questo Sant’Egidio ha dato vita a un movimento di giovani europei, European for peace, che ogni anno si reca in pellegrinaggio con migliaia di ragazzi ad Auschwitz – Birkenau per comprendere meglio quale è la propria missione di pace nel mondo. Le radici dell’Europa, di un’Europa di pace e democrazia, sono infatti anche in quel luogo di inferno, che ha visto lo sterminio di milioni di ebrei europei. Giovani dell’Est, provenienti da paesi dove è ancora forte l’antisemitismo, insieme a giovani dell’Europa occidentale dove l’antisemitismo è risorgente, hanno la possibilità di vedere da vicino l’orrore del campo e ascoltare le testimonianze dei sopravvissuti. 
 
La storia, è vero, non si ripete: ma i meccanismi sociali e psicologici che in un contesto di crisi inducono a diventare complici di dottrine totalitarie, non cambiano. È questa memoria dolorosa che deve essere trasmessa ai nuovi cittadini europei, e soprattutto alle giovani generazioni, per creare quel senso di responsabilità, individuale e collettiva essenziale in una democrazia. Perché possano armarsi della capacità di comprendere e di discernere di fronte a tecniche di propaganda che oggi, seppure così differenti, assomigliano in modo impressionante a quelle di un secolo fa. Perché la paura e l’insicurezza, la fragilità dei punti di riferimento, la ricerca d’identità dei più giovani non siano sfruttate per imporre un’identità violenta, che propone nuovi capri espiatori e incolpa innocenti. 
 
Tuttavia, il nostro essere europei non può basarsi unicamente sulla memoria. Commemorare le vittime della Shoah come fa l’Unione Europea il 27 gennaio è importante, ma non basta. Abbiamo bisogno di una memoria positiva che dal passato possa trarre lezioni di vita valide ancora oggi. Agli europei, ai giovani, deve essere restituito l’orgoglio di appartenere a un continente i cui popoli sono riusciti a sconfiggere per due volte il totalitarismo, nel 1945 e nel 1989, e che con il sudore della fronte hanno costruito la democrazia, restituito la dignità ai cittadini e iniziato la costruzione di una società capace di includere senza paura le diversità. I giovani non sono il futuro dei nostri popoli, sono il presente, quelli che già oggi con i loro sogni e la loro vita possono forgiare un nuovo spirito europeo: aperto, inclusivo, capace di andare incontro all’altro, libero da pregiudizi e paure.
 
In un tempo, in cui sembrano tanti coloro che vogliono vivere senza memoria, nelle Scuole della Pace di Sant’Egidio non si può non “fare memoria”. E quest’anno, ad esempio, in occasione dell’80mo anniversario delle leggi razziste in Italia, quelle leggi che hanno espulso gli ebrei dalle scuole e dalla società, i bambini delle Scuole della Pace hanno prodotto una mostra dal titolo “Prendi la tua cartella e vattene da scuola”. La mostra è stata il momento culminante di un vasto lavoro di approfondimento e di educazione alla pace, che ha riguardato il passato ma ha anche aiutato a comprendere come costruire un futuro migliore. 
 
È stata infatti l’occasione per riflettere su fenomeni ancora attuali in Europa, quelli dell’esclusione e dell’emarginazione e sulla necessità dell’inclusione. Bambini di ogni provenienza hanno ripercorso quella storia dando rilievo a ciò che più li ha colpiti. “Prendi la tua cartella e vattene da scuola”, sono le parole immaginate di quell’ordine perentorio di separazione. Di fronte ai portoni chiusi alle spalle dei piccoli ebrei, ecco le lacrime di bambini e maestri di ieri. Ma anche quelle di chi oggi si immedesima nello stato d’animo di quegli alunni espulsi. Nel corso del lavoro, i bambini hanno intuito che il disprezzo e la discriminazione sono una minaccia sempre possibile: “se succede un’altra volta che facciamo?”, si è chiesta una bambina rom, “Stavolta toccherà a noi?”. “L’esclusione c’è ancora oggi” hanno osservato i bambini, consapevoli che anche adesso bisogna resistere ad una mentalità che esclude l’altro. Episodi di emarginazione o di esclusione, in alcuni casi dalle evidenti connotazioni razziste, sono stati raccontati dai bambini di oggi. Come rispondere? -si sono chiesti.  “Se studio, potrò rispondere con le parole”: hanno affermato. Studiare, conoscere, aiuta a comprendere e a trovare le parole per affrontare la realtà anche quando sembra più facile il ricorso alla violenza. Conoscere questa vicenda, seppure lontana nel tempo, ha permesso di immedesimarsi, riflettere e solidarizzare con le vittime di quel dolore antico e con quelle di oggi. Una nuova chiarezza è emersa, espressa nelle opere prodotte e nelle istallazioni: la consapevolezza che la loro molteplicità etnica e culturale non è necessariamente motivo di divisione e ostilità. La diversità dell’altro non fa più paura ma acquista fascino, scardinando insicurezza e aggressività. È la nostra proposta ai giovani europei di oggi, bambini e ragazzi di provenienze differenti che in tempi successivi sono divenuti cittadini di questo continente. Da questo lavoro di elaborazione della memoria emerge quel segreto di una convivenza pacifica, capace di includere e di superare le differenze, che una bambina ha espresso con grande efficacia con queste semplici parole: “dentro siamo tutti uguali, è solo fuori che siamo diversi!”.