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Aleksandra Kania

Sociologa, Polonia
 biografia

Il razzismo, secondo l’Encyclopaedia Britannica – è “l’ideologia per la quale gli uomini possono essere divisi in entità biologiche separate ed esclusive chiamate ‘razze’, per cui c’è un legame causale fra tratti fisici ereditati e tratti della personalità, dell’intelletto, della moralità, e altri aspetti culturali e comportamentali, e per cui alcune razze sono intrinsecamente superiori ad altre” (Smedley, Racism/www.britannica.com). Nonostante la mancanza di qualsiasi fondamento scientifico, il razzismo è servito da giustificazione teorica e da base per parecchie politiche distruttive, come genocidi, apartheid, esclusioni e discriminazioni. La forma più esplicitamente ideologica di razzismo include il credere nell’ineguaglianza ereditaria delle razze. Espressioni tipiche di questo razzismo biologico sono: “la razza bianca è superiore alle altre razze” e “dobbiamo evitare di mescolarci con le altre razze”. La forma di razzismo meno fondata ideologicamente è definita razzismo quotidiano (De Witte, 1999), che comprende una gamma di opinioni popolari che esprimono un atteggiamento negativo verso gli stranieri, gli immigrati, e tutti gli altri che non sono parte della propria nazione o del proprio gruppo etnico. 

 
Questo atteggiamento si riferisce alle differenze culturali che sono percepite come una minaccia alle proprie abitudini, stile di vita religione, identità culturale, o minaccia e competizione economica che si ritiene venga rappresentata da immigrati e stranieri 
 
I sociologi Matthew Clair e Jeffrey S. Denis (2015) hanno distinto i seguenti aspetti nel razzismo: 
 
Costruzione socio-culturale che classifica le persone sulla base di alcune caratteristiche biologiche e fisiche osservabili (come il colore della pelle o dei capelli e la forma degli occhi), presumibilmente legata a differenze culturali, comportamentali, religiose, psicologiche, intellettive e morali. Tuttavia i ricercatori notano che “il razzismo non è originato dall’esistenza delle ‘razze’. Esso le crea attraverso un processo di divisione sociale in categorie: chiunque può essere “razzializzato”, indipendentemente dalle differenze somatiche, culturali e religiose (2009). Per esempio, i risultati di una ricerca (Nowicka,1994) indicano che i polacchi collegano il concetto di razza in grande misura al colore della pelle (l’88% identificava i neri e i cinesi come appartenenti a razze diverse dalla propria), ma anche a una percezione di distanza culturale e religiosa (gli arabi erano esclusi dalla comunità razziale polacca dall’80%, e gli ebrei dal 47%). Una percentuale più piccola di polacchi legava la razza alle diverse caratteristiche nazionali ed etniche (oltre il 20% non includeva gli italiani, i tedeschi e gli inglesi nella stessa razza dei polacchi, e il 7% pensava che gli slovacchi appartenessero ad un’altra razza, ma la grande maggioranza, l’89% , sentiva che essi appartengono alla stessa razza). 
 
La discriminazione razziale riguarda le differenze nel trattare le persone di razze diverse basandosi su assunti di superiorità intellettuale, spirituale, morale o di altre forme, usate dalle classi o dai gruppi dominanti per giustificare l’oppressione economica e politica, la violenza fisica e simbolica, o il pregiudizio sociale nel trattamento dell’altro “razzializzato” (p.es. la violenza coloniale verso le popolazioni indigene, la riduzione in schiavitù degli africani, l’antisemitismo e l’Olocausto in Europa). La discriminazione razziale o l’esclusione etnica è legata anche allo sciovinismo nazionale, alla xenofobia, al pregiudizio e a stereotipi negativi, che creano un senso di minaccia e angoscia verso la propria vita. Questo può assumere molte forme: dalla brutale aggressione fisica, che porta a volte alla distruzione completa, alla propaganda d’odio e agli attacchi verbali il cui obiettivo è la violazione della dignità e la creazione di un’atmosfera di minaccia o di umiliazione, a vari ostacoli nell’ambito del funzionamento quotidiano della società. 
 
L’ineguaglianza razziale riguarda i risultati immediati e gli effetti duraturi della discriminazione nella distribuzione dei redditi, l’istruzione, la salute, il prestigio sociale tra le razze. I gruppi minoritari razziali o etnici sono privati della possibilità di partecipare attivamente alla vita sociale collettiva, il che limita l’accesso ai beni e a varie risorse, e al capitale economico, politico, sociale e culturale. Questi gruppi possono essere paragonati - in questo senso - a categorie come i poveri, i disoccupati, i senza casa, i disabili, le persone private dei diritti politici, e quelle di diverso orientamento religioso o sessuale. 
 
La sociologia contemporanea studia il rapporto tra i cambiamenti nelle ideologie razziste, la discriminazione razziale e l’ineguaglianza delle razze. Il razzismo è stato condannato da molte organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite nella “Dichiarazione dei diritti umani” del 1948 o nella “Convenzione internazionale per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale” del 1965 (secondo Wikipedia: “la definizione delle Nazioni Unite di discriminazione razziale non fa nessuna distinzione tra discriminazioni basate su etnia e razza…”). Chiaramente il razzismo è percepito come incompatibile con qualsiasi criterio di correttezza politica in molti paesi del mondo. 
 
Psicologi sociali e sociologi che esplorano le dinamiche alla base di atteggiamenti verso le minoranze razziali o etniche hanno scoperto che un declino del cosiddetto “razzismo evidente” negli ultimi decenni negli USA e nei paesi dell’Unione Europea è stato accompagnato dallo sviluppo di nuove forme di atteggiamenti negativi che sono più “sottili”: mascherati e non palesemente razzisti. Il razzismo evidente include, per esempio, “la convinzione della superiorità biologica o culturale del proprio gruppo” (Verberk & Scheepers 1999:171) e la percezione che le minoranze etniche provochino problemi dovuti a comportamenti criminali, degrado di costumi, norme e valori, o alla mancanza di casa e lavoro. Mentre un razzismo sottile, coperto si esprime attraverso il “paternalismo” della maggioranza dominante (una volontà di fornire alle minoranze quello che potrebbe servire per assimilarsi, mentre si rifiutano loro la libertà di scelta), l’esagerazione delle differenze culturali, la  “tolleranza negativa” (una volontà di garantire alle minoranze la libertà di mantenere il proprio stile di vita fintanto che questo non impone restrizioni alle norme e ai valori della maggioranza), o una “prudenza negativa” e un sentirsi poco a proprio agio nelle interazioni con le minoranze etniche. 
 
La ricerca negli USA e nei paesi europei ha mostrato che “atteggiamenti negativi sottili verso le minoranze razziali ed etniche sono molto più diffusi di atteggiamenti palesemente negativi”, ma che “molti aspetti di questi atteggiamenti negativi sottili … erano ampiamente collegati ad atteggiamenti palesemente negativi, il che indica che atteggiamenti sottili erano integrati in atteggiamenti evidenti” (Verberk & Scheepers 1999:194, 202). Le persone che esprimono un razzismo evidente sono più inclini ad opporsi a politiche volte a instaurare l’eguaglianza razziale ed etnica, e più inclini a favorire politiche di immigrazione restrittiva di coloro che nutrono pregiudizi più sottili. Tuttavia, l’opposizione ad un’azione affermativa è influenzata in maniera più significativa da atteggiamenti negativi sottili verso le minoranze etniche. Studi condotti in Olanda hanno rivelato che la minaccia etnica percepita della competizione per le scarse risorse, e la minaccia alla stabilità della propria identità nazionale, pure contribuiscono in maniera significativa all’opposizione a politiche di azione affermativa. 
 
L’istruzione ricopre un ruolo importante nel ridurre il razzismo e nel cambiare le forme di pregiudizio etnico. La più alta adesione ad atteggiamenti palesemente o sottilmente negativi è tra persone con una scolarità elementare o di scuola professionale. Tra le persone più scolarizzate l’accettazione di tali atteggiamenti è meno frequente e c’è meno opposizione ad un’azione affermativa; le persone che hanno completato il college e l’università sono quelle che con meno probabilità aderiscono ad atteggiamenti sottilmente negativi verso altre razze o minoranze etniche. Il livello di istruzione ha anche un impatto indiretto su forme di razzismo che stanno cambiando: persone con un basso livello di istruzione e una situazione socio-economica svantaggiata sono più inclini all’autoritarismo e all’intolleranza politica, come anche a percepire maggiormente la minaccia da parte delle minoranze etniche, rispetto a coloro con un livello di istruzione più alto. L’autoritarismo (p.es. il credere che la migliore forma di sistema politico sia “avere un leader forte che non debba tener conto del parlamento e delle elezioni”), l’intolleranza politica, e la percezione della minaccia etnica accrescono in maniera significativa la tendenza ad esprimere un razzismo palese. 
 
I risultati della ricerca che mostrano che l’istruzione ha un effetto cruciale sul razzismo e il pregiudizio etnico giustificano la ricerca di strumenti per diminuire la discriminazione razziale e le ineguaglianze razziali nei programmi educativi. Tuttavia, mostrano anche i limiti degli effetti positivi dell’istruzione, che possono essere contrastati da convinzioni politiche, valori e umori che negano l’eguaglianza ai migranti e alle minoranze, come anche da ostacoli istituzionali verso la loro inclusione e integrazione nella società. Una condizione essenziale per combattere la discriminazione delle minoranze etniche, gli immigrati e i rifugiati è il riconoscere le forme sempre mutevoli e diverse della loro esclusione dalla comunità nazionale nel mondo contemporaneo.
 
Andreas Wimmer (2002: 1,4) afferma che nell’era moderna lo stato nazione è l’ambito fondamentale in cui si verifica l’inclusione e l’esclusione dalla collettività sociale: “Appartenere ad uno specifico gruppo nazionale o etnico determina l’accesso ai diritti e ai servizi che lo stato moderno dovrebbe garantire. Le principali promesse di modernità – la partecipazione politica, il trattamento uguale davanti alla legge e la protezione dall’arbitrarietà del potere dello stato, la dignità del debole e del povero, la giustizia sociale e la sicurezza – sono state realizzate pienamente soltanto per quelli che sono stati considerati veri membri della nazione. I principi moderni di inclusione sono intimamente legati alle forme etniche e nazionali di esclusione… L’inclusione nella comunità nazionale di uguali è andata di pari passo con l’esclusione di coloro che non sono considerati veri membri della famiglia: quelli che sono classificati stranieri, minoranze etniche e religiose, lavoratori ospiti e o apolidi”. 
 
Christian Joppke (2005: 43-61), mettendo in discussione Wimmer, sottolinea che uno stato occidentale moderno è caratterizzato dalle tensioni tra il liberalismo universalistico, che riconosce uguali diritti e la libertà di tutti i suoi membri, e il nazionalismo particolarista, che esclude da questi diritti quelli che non ne sono membri. 
 
Lo European Values Study (lo studio di valori europei - EVS), condotto da diversi decenni, e che include - tra vari problemi - quello degli atteggiamenti verso le minoranze e gli immigrati (oltre ad alcuni altri indicatori più specifici sull’esclusione etnica), indica che in Polonia, dal 1989, gli sviluppi sono simili a quelli descritti da Wimmer e Joppke nei paesi europei liberal-democratici. C’è una transizione dalla discriminazione ed esclusione di gruppi minoritari nazionali (“altri interni”) al tentativo di integrarli nella struttura statale e di proteggere la loro cultura etnica. Tuttavia, più recentemente, l’esclusione di stranieri, immigrati e rifugiati è in aumento. 
 
Nel 1990, in Polonia, la minoranza etnica maggiormente respinta si è rivelata quella rom (gli zingari) – considerati vicini indesiderati dal 36,6% dei polacchi – seguiti dai musulmani (19,6%), ebrei (17,7%), persone di razza diversa (16,8%), immigrati e lavoratori stranieri (10%). La xenofobia e il rifiuto di contatti con gruppi di non appartenenza erano in aumento nell’ultimo decennio del 20° secolo, ma poi sono diminuiti nel primo decennio del 21° secolo, particolarmente dopo l’entrata della Polonia nell’Unione Europea. Nel secondo decennio, i risultati del sondaggio dell’EVS del 2017 hanno evidenziato un’ulteriore diminuzione della distanza sociale e dell’esclusione dei rom (29%), degli ebrei (9%), e di persone di diverse razze (7,4%), ma un aumento significativo dell’intolleranza e del rifiuto di contatti con gli immigrati e i lavoratori stranieri (19%) e con i musulmani (33%).
 
L’analisi dei dati della ricerca (Jasińska-Kania 2009:35-36) hanno indicato che il desiderio di escludere gli stranieri dalla collettività nazionale e di imporre loro barriere di distanza sociale è molto forte tra coloro che sono essi stessi in condizioni percepite  come esclusione sociale e marginalità: quelli che considerano povere le proprie condizioni materiali ed hanno una posizione di scarso rilievo in ambito lavorativo, pensionati e anziani, quelli che non hanno un buon livello di istruzione e gli abitanti di villaggi e piccole città periferiche. Queste condizioni, che limitano le risorse del capitale economico, sociale e culturale, diminuiscono le proprie possibilità in una competizione individuale e creano dipendenza dalla famiglia, la comunità locale o lo stato sociale, come mezzi per soddisfare i propri bisogni materiali, sociali e culturali. Esse aumentano la paura degli stranieri, che è legata a un senso di minaccia che gli immigrati diminuiranno l’accesso a risorse collettive già misere e che indeboliranno legami di identità e solidarietà nazionali. Esse aumentano anche le tendenze a sostenere partiti e gruppi politici che proclamano slogan nazionalisti e populisti e che sostengono la chiusura del proprio paese agli stranieri.
 
Nel suo libro Strangers at Our Door (2016), Zygmunt Bauman ha mostrato “come i politici hanno sfruttato le paure e le ansie che si sono diffuse, specialmente tra coloro che hanno già perso così tanto – i diseredati e i poveri. Ma … la politica della reciproca separazione, della costruzione dei muri piuttosto che dei ponti è sbagliata. …Stiamo affrontando una crisi di umanità e l’unica uscita dalla crisi è riconoscere che siamo sempre più interdipendenti come specie, e trovare nuovi modi per vivere insieme in solidarietà e cooperazione, insieme a stranieri che potrebbero avere opinioni e preferenze diverse dalle nostre”. 
 
 
 
References
 
  • Bauman, Z. (2016). Strangers at Our Doors. Cambridge, Polity.
  • Clair, M. and Denis, J.S. (2015). “Racism, Sociology of”. International Encyclopedia of the Social & Behavioral Sciences, 2nd Ed. Vol.19. Elsevier, pp. 857-863.
  • De Witte, H. (1999). “’Everyday’ Racism in Belgium: An Overview of the Research and an Interpretation of its Link with Education”, in L. Hagendoorn and S. Nekuee (eds.), Education and Racism: A cross national inventory of positive effects of education on ethnic tolerance. Aldershot, Ashgate. 
  • Jasińska-Kania, A. (2009). “Exclusion from the Nation. Social Distances from National Minorities and Immigrants”. International Journal of Sociology, vol. 39, no. 3, pp. 15-37. 
  • Joppke, C. (2005). “Exclusion in the Liberal State. The Case of Immigration and Citizenship Policy”. European Journal of Social Theory, vol. 8, pp.43-61.
  • Nowicka, E. (1994). “Social Distance Toward Germans among Contemporary Poles. An Empirical Study”, in R. Grathoff and A. Kłoskowska (eds.), The Neighborhood of Cultures. Warsaw, PAN ISP. 
  • Smedley, A. (2019). Racism/www.britannica.com 
  • Verberk, G. & Scheepers, P. (1999). “Education, Attitudes towards Ethnic Minorities and Opposition to Affirmative Action”, in L. Hagendoorn and S. Nekuee (eds.), Education and Racism: A cross national inventory of positive effects of education on ethnic tolerance. Aldershot, Ashgate. 
  • Wimmer, A. (2002). Nationalist Exclusion and Ethnic Conflict. Shadows of Modernity. Cambridge, Cambridge University Press.