Compartir En

Ali Wahdat

Movimiento Gente de Paz, Afganistán
 biografía
1 - Mi chiamo Ali ho 34 anni e sono afghano, ma non conosco il mio paese, perché non l’ho mai visto. 
Infatti sono nato in Iran e con i miei genitori e i miei 4 fratelli ho sempre vissuto in Iran. 
In Iran ci sono oltre un milione di afgani fuggiti a causa di ripetute guerre, ormai da 40 anni.
Dall'Afghanistan i miei genitori sono dovuti scappare quasi quaranta anni fa, durante l’occupazione russa, altrimenti mio padre, esponente politico afgano, sarebbe stato ucciso. Io sono di una etnia che ha sempre avuto molti problemi in Afghanistan, gli Hazara, che sono circa 10 milioni, di cui quasi 5 milioni sono rifugiati o sfollati (internal displaced). 
Gli Hazara sono una minoranza etnica di origine probabilmente turco-mongola ma di lingua persiana (parlano hazaragi, un dialetto del dari che include un gran numero di elementi mongoli). Gli Hazara sono principalmente sciiti.
Io ho sempre vissuto da rifugiato quindi, e la vita del rifugiato è faticosa.... ti riconoscono che sei afghano dall’aspetto, e quindi sei sempre emarginato; è difficile fare tutto, perché non hai i documenti, e non puoi neppure studiare. E anche se hai le capacità, e hai studiato da solo, non ti è permesso di fare lavori regolari o del livello per cui hai studiato. 
La mia famiglia è sparsa in tanti paesi, una parte in Iran, un'altra in paesi europei, e ancora una parte in Afghanistan.
 
2 -  Ero già grande quando noi figli, insieme alla mamma decidemmo di partire alla volta dell'occidente, direzione Europa del Nord, circa 12 anni fa, vendendo la nostra casa per pagare il viaggio.
Povero il nostro papà! ... Il nostro lungo e faticoso viaggio gli è costata la sua casa... Faticosamente acquistata in anni di sudore e sacrificio!
 
3 - Il viaggio è stato duro e tortuoso, siamo partiti in tanti, ma non siamo arrivati tutti, perché alcuni sono morti nel viaggio..! 
Abbiamo attraversato le montagne a piedi, fino alla Turchia, poi abbiamo attraversato il mare Egeo in una barca a motore, un peschereccio su cui erano salite 40 persone. Abbiamo rischiato di affondare attraversando l’Egeo, e in Grecia abbiamo comprato dei passaporti falsi, ma solo mia madre e i miei fratelli più piccoli sono riusciti a passare dall’aeroporto... Con le donne e i bambini, qualche volta, chiudono un occhio e fanno finta di non vedere… 
Io e mio fratello più grande invece siamo stati fermati al check in e rimandati indietro.
 
4 - E fu così che la Grecia, per circa un anno e mezzo, divenne la nostra casa…! io e mio fratello eravamo ormai adulti, e con i grandi non si è sempre così indulgenti. 
Ci dovevamo rimboccare le maniche e lavorare duramente per lunghi mesi per guadagnare abbastanza, da poter tentare anche noi nuovamente di raggiungere l’Europa del Nord....
 
5 - La determinazione però non sempre è sufficiente... perché una volta arrivati, quando pensi di aver raggiunto il tuo obiettivo.... succede ancora qualcosa .. 
In Norvegia, in quel freddo paese nordico, la vita fu tutt'altro che facile. Ero privo di documenti, ma questo significava per me anche essere privo di identità..  non riuscivo ancora a capire chi ero, e anche lì in Europa non avevo ancora trovato il mio posto... 
La mia richiesta di asilo fu bocciata una e più volte... non potevo lavorare regolarmente, e avevo paura di lavorare in nero, perché non volevo essere espulso; ma alla fine sono stato espulso lo stesso.  
Una notte l'arrivo improvviso della polizia mi ha costretto di nuovo a fuggire, per non essere rimandato in Afghanistan, dove non ero mai stato.
E così con il mio zaino (per me la mia casa) sono partito nuovamente... verso l’Italia, dove ero passato per pochi mesi, prima di andare verso il Nord Europa.
Finalmente lì potevo fare domanda di asilo politico, senza paura di essere rimandato indietro. 
Dopo essere stato riconosciuto rifugiato ho pensato di andare a visitare i miei fratelli in Norvegia, ma quando sono arrivato alla frontiera, la polizia ha visto che mancavano pochi giorni (circa 10) allo scadere del termine del periodo di espulsione dalla Norvegia, e sono stato portato prima al posto di polizia, e poi in prigione, dove sono rimasto un mese, senza poter trovare un avvocato per difendermi, e sentivo i miei fratelli solo per telefono, 5 minuti a settimana. 
Grazie agli amici della Comunità di Sant’Egidio e all’UNHCR. sono riuscito a contattare un avvocato, che ha fatto valere i miei diritti e mi ha fatto tornare in Italia.
 
7 - La mia cara Italia, dove alla fine ho deciso di fermarmi. Cosa è per me l’Italia? 
Qui per la prima volta ho ricevuto un documento, il permesso di  soggiorno, una Sim card a mio nome... Che emozione!!!! E dopo 10 mesi arriva poi la notizia che da tempo attendevo: “Ali, hai ottenuto lo status di rifugiato...ora sei al sicuro... Non devi più fuggire! 
Non dover più fuggire, avere un documento con il proprio nome e cognome, costruirsi una vita, avere degli amici e tanto altro. Qui cominciare a costruire una identità, la mia identità, che avevo tanto cercato. La malattia di chi nasce rifugiato è quella di continuare a muoversi, perché non ci si sente mai al sicuro, ma alla fine ho deciso di non continuare a muovermi, perché penso che è necessario anche fermarsi, e costruire insieme ad altri il proprio futuro, senza rinnegare le proprie origini.
 
8 – Ed è qui che comincia il mio riscatto, un corso di italiano, un tirocinio formativo, così come ho sempre sognato.  Nel 2017 mi sono iscritto al corso di Alta Formazione per Mediatore Interculturale, nella scuola di Sant’Egidio, e il mio sogno è coronato... A consegnarmi l'attestato al termine del corso è proprio lei... Il ministro dell'istruzione in persona...
Insomma... Nonostante alti e bassi, un licenziamento, ho saputo resistere....
Oggi sono Ali, mediatore professionista, che ha ottenuto il suo riscatto, e sono iscritto all’ultimo anno del corso di laurea triennale in Mediazione Interculturale, e qui, ancor di più le mie prospettive, con la scuola e l’incontro di persone di tante culture e religioni diverse, si sono ampliate. Ho cominciato a gustare alcune parole, come ad esempio Dialogo, Incontro, Pace, una parola così importante.
Voglio raccontarvi ancora una cosa, anche se forse avete già sentito parlare di questo. Oggi la situazione in Afghanistan è molto grave. Dopo il ritiro delle truppe straniere, che sono state vent’anni nel Paese, i talebani hanno preso il controllo di oltre cinquanta distretti e città. A farne le spese rischiano di essere soprattutto gli Hazara, e in tutto il Paese sono in corso combattimenti. Mi dispiace che la comunità internazionale abbia deciso di lasciare il Paese in questa situazione così drammatica sotto il profilo dei diritti umani.
La situazione non è chiara, non si capisce se siano stati fatti degli accordi o cosa ci sia dietro a questo caos. I civili in tutto il Paese, comprese le donne, hanno deciso di prendere le armi e tentare di difendersi. Nessuno vuole che si ripeta la situazione che si era creata negli anni ’90.
La vita umana è sacra, abbiamo una sola vita e tutti hanno diritto di viverla e di viverla nel migliore dei modi. Le persone non sono numeri. Quando pensiamo alle persone come numeri, perdiamo il senso della nostra stessa umanità e ciò significa che la nostra umanità è fallita. E’ importante continuare a raccontare cosa accade, mettere in luce la condizione delle donne, il genocidio degli Hazara, la guerra che prende di mira i civili. 
Io in Italia ho imparato a gustare la bellezza di aiutare altri, ho accettato l’invito ad andare nei campi profughi a Lesbo, in Grecia, durante l’estate, con la Comunità di Sant’Egidio. Per me è stato importante parlare con i giovanissimi afgani, che fuggono da soli alla ricerca di un futuro, non di un futuro migliore, ma di un futuro e basta, perché nei campi le parole che si sentono di più sono: “non abbiamo più speranza”. 
I giovani non fanno niente tutto il giorno, e questo non è giusto. Quando ho incontrato alcuni giovani che non sono mai andati a scuola, ho pensato che in fondo io sono stato fortunato, perché ho potuto realizzare il mio sogno di studiare, e cominciare a costruirmi un futuro. Nei campi profughi, la fame di scuola, di speranza, è molto evidente, colpisce.  Questi venti anni in Afghanistan non sono passati invano: tante ragazze stanno sognando, tanti giovani stanno manifestando, l’interesse del mondo, attraverso la stampa, non è finito, e questo ci dà speranza, la speranza che insieme si può costruire un futuro diverso.
Anche io avevo questo sogno, e ho potuto in parte realizzarlo, ma mi rendo conto che oggi ho una responsabilità in più: quella di sostenere il sogno di futuro di tanti bambini, di giovani, la responsabilità di costruire insieme un mondo senza ingiustizie, senza sofferenze, perciò penso che devo parlare, raccontare, aiutare chi è più giovane di me a partecipare, e a lavorare per costruire insieme un mondo di pace.
 
Grazie