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Olivier Roy

Orientalista e politologo, Francia
 biografia

Un tema dominante oggi tra i politici è quello dell’identità: non sono solo i partiti populisti a difendere questa idea. L’Unione Europea ha appena creato una commissione incaricata di difendere «lo stile di vita europeo», che definisce quindi un «noi» europeo. Ma chi sono «gli altri»? Perché il paradosso è che i valori associati a questo stile di vita europeo, nella missione conferita a questa commissione, sono valori che si presuppone siano universali: democrazia, stato di diritto, libertà. Si può supporre che moltissimi rifugiati siriani o afgani condividano questi valori. Dunque, la decisione di intitolare così la commissione è chiaramente politica: si tratta di definire una frontiera «identitaria» per limitare l’immigrazione, se no perché non parlare di valori universali, perché introdurre questo concetto un po’ bizzarro di «stile di vita» ? Perché uno «stile di vita» non si fonda su valori astratti, ma su un modo di vivere nel quotidiano: si tratta di difendere una « cultura europea », cioè un’identità europea.

L’identità presuppone che ci sia qualche cosa in comune tra un insieme di persone (una società un paese, una regione), c’è dunque un « noi ». Ma questo « noi » si costruisce a fianco, ossia contro un « loro ».  E’ un « noi » che crea frontiere, che contrappone questo gruppo ad un altro gruppo. Serve, quindi, ad esempio, a giustificare il rifiuto di accogliere i migranti, perché non sono come noi.

Ma cosa costruisce una identità?

Dei valori? Ma i valori rinviano sempre a qualche cosa di più di quello che siamo, rinviano a un ideale; ma un ideale non si raggiunge mai, non è mai una cosa inerte, ma è una proiezione al di là di quello che siamo. Una identità non può essere fondata su valori e non può fondare dei valori.

Una fede? Ma la fede è anche il riconoscimento dell’incompletezza, il rifiuto della finitezza e del semplice gioire di ciò che siamo. La fede ci proietta al di là di noi stessi; ci può essere certamente una comunità di fede, ma non una identità fondata sulla fede, a meno di non avere un rapporto narcisistico con la propria fede individuale, concepita semplicemente come un bene da proteggere dagli altri. 

Quando i politici, uomini o donne, parlano di « identità cristiana dell’Europa », non si riferiscono mai alla fede cristiana, e neppure ai valori cristiani, ma semplicemente ad un passato comune che non è più portatore di una visione del futuro.

L’identità è fare dell’umano una cosa, perché non conosce altro che la ripetizione e l’imitazione, è rivolta verso se stessa, è ripiegata.

Un’identità è sempre una collezione di indicatori eterogenei: ad esempio, in Francia un movimento populista ha organizzato degli aperitivi pubblici « salsicce – vino rosso » che escludono per definizione Ebrei e Musulmani. E anche se vino e salsicce sono buoni, non costituiscono in nessun modo una cultura; è uno « stile di vita » ridotto alla sua più semplice espressione.

L’identità è la ripetizione di ciò che crediamo sia sempre stato, ma senza la dinamica culturale che ha potuto ispirare i nostri predecessori.

E un paradosso di questo riferimento all’identità europea, è che pretende anche di difendere i diritti dell’individuo di fronte al supposto comunitarismo delle altre culture. Ma per poter parlare di un « noi » europeo, noi cancelliamo le nostre differenze per essere meglio « noi stessi » di fronte all’altro. Cancelliamo la nostra storia, la diversità delle nostre società e sicuramente l’importanza dei conflitti e delle guerre che hanno fatto dell’Europa quello che è oggi.

Di colpo l’identità non riconosce più gli individui, cancella gli individui a vantaggio di un insieme di caratteristiche abbastanza superficiali (come il famoso « stile di vita ») che « identificano » l’individuo al suo gruppo senza riconoscere la sua individualità.

E è qui il paradosso del « noi » : non possiamo dire « noi », il « noi » dell’universalità, se non riconoscendo l’altro come un individuo al di là del suo gruppo. L’ossessione dell’identità spinge a difendere dei « noi » giustapposti, definiti da criteri semplicisti e superficiali, il cui obiettivo non è che l’esclusione dell’altro. Per ritrovare il « noi » dell’universalità, occorre innanzitutto accettare di avere di fronte a sé non dei gruppi chiusi su se stessi, ma degli individui, delle persone in cerca di un futuro.