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Benedetto Carucci Viterbi

Collège rabbinique d'Italie
 biographie

Bereshit barà Elokim et hashamim vet haaretz: In principio il Signore creò il cielo e la terra

L’occasione vuole che proprio questo Sabato, nelle sinagoghe di tutto il mondo, sia ricominciato il ciclo annuale della lettura della Torah, il Pentateuco. Abbiamo letto i capitoli che narrano la creazione del mondo: un processo progressivo di separazione ed identificazione. Abbiamo seguito le vicende della formazione dell’essere umano e la sua divisione in maschio e femmina e poi quelle che raccontano la sua caduta rispetto al progetto originario. Infine abbiamo ascoltato la storia di Caino ed Abele: un fratricidio.

Se vogliamo riflettere sulla parola di Dio che genera sogni possiamo forse dire che la primissima parte della Genesi, parola creatrice di Dio, è anche il sogno/progetto divino. È, per riprendere le parole dette ieri da illustri oratori, l’immaginazione divina del mondo ideale. Il sogno divino, però, si infrange subito a contatto con la realtà umana: Adamo ed Eva mangiano il frutto e, appena fuori dal paradiso, il conflitto porta Caino ad uccidere Abele. La deviazione rispetto all’ideale sereno e pacifico - lavorare il giardino dell’Eden e custodirlo, godendo dei suoi frutti - difficilmente potrebbe essere più profonda. La storia umana prende dunque una diversa direzione: fatica figlia della necessità, dolore per la continuità, lotta per la vita. È nella nuova cornice del mondo là fuori che si dipana, su questi parametri, l’esistenza dell’uomo. Una prospettiva tutt’altro che da sogno; piuttosto un incubo impegnativo. C’è una via per tornare al progetto iniziale immaginato da Dio? Non all’Eden, le cui porte sono chiuse e custodite, ma a ciò che avrebbe potuto/dovuto essere?
Leolam hashem devarechà nitzav bashamaim: Per l’eternità, o Signore, la tua parola è stabile nel cielo (Salmi 119).

Trama ed ordito della Torah sono lettere e parole che, insieme ai silenzi/pause, costituiscono il discorso creatore divino: la tradizione rabbinica identifica in dieci locuzioni il fondamento dell’universo. Dieci locuzioni morbide, ma’amarot, con cui Dio porta dal nulla all’essere la realtà delle cose. Dieci locuzioni che si integrano con le dieci parole delle tavole del patto, dibberot. Dieci parole dure, queste ultime, che incidono la pietra ma che possono, come accade prima della colpa del vitello d’oro, alleggerirsi e volare in cielo per tornare alla loro origine. La realtà del mondo, e la Torah che ne è il progetto, sono due libri costituiti dalla medesima materia, la parola/discorso. Nella Torah è parola scritta, destinata alla lettura ed alla comprensione, nella realtà del mondo è parola intorno a cui si rapprende la materia. Niente altro che due aspetti della stessa espressione divina, contemporaneamente udibile e visibile.

Così accadde al popolo che, ai piedi del monte Sinai,“vede le voci” (Esodo 20, 15). La parola divina, come suggerisce una ardita interpretazione di rabbi Shneur Zalman di Lyadi del verso citato in apertura - “Per l’eternità, o Signore, la tua parola è stabile nel cielo” - continua eternamente ad echeggiare in cielo, e dunque nel cuore della materia di cui è fatta la realtà. Senza questa eco costante, che rappresenta anche la continuità di una creazione che quotidianamente si rinnova, non c’è tenuta per l’universo: su queste dieci espressioni costantemente ripetute si fonda e si poggia.
Il Sogno/le storie/la storia

Il discorso divino genera dunque realtà - una realtà in continua trasformazione - dentro la quale si dipanano le storie - la Storia con la esse maiuscola? - che spesso, in particolare in Bereshit e Shemot - i libri di Genesi ed Esodo - appaiono, o sono, sogni. Il primo di questi a comparire nel testo è il sogno di Giacobbe: una scala ben piantata in terra la cui cima giunge al cielo. Sulla scala - o su Giacobbe? - salgono e scendono angeli. È la scala della storia, secondo l’esegesi midrashica, fatta di salite e discese, di domini e sottomissioni; domini, anche i più potenti, destinati necessariamente al tracollo: “Anche se tu ti innalzassi come un’aquila, anche se tu ponessi il tuo nido tra le stelle, da lì ti farò scendere, detto del Signore” (Ovadiah 1,4). Se la scala di Giacobbe è la scala della Storia, il movimento di coloro che dentro la Storia si muovono - le nazioni, l’Umanità - parte dal basso. La scala è ben piantata per terra e il movimento dal basso parte, non dall’alto. Dall’alto, al massimo, sembra provenire la risposta divina all’agire umano, non certo la definizione predeterminata di quest’ultimo: gli angeli, controintuitivamente, salgono e scendono. E nello speculare sogno/visione/esperienza che Giacobbe/ Israele ha al ritorno, la lotta con il misterioso uomo/ angelo, ancora una volta il richiamo alla terra è evidente. Il verbo combattere nel verso “e uno uomo combattè con lui fino al sorgere del sole” (Genesi 32,25) designa un combattimento in cui i contendenti vogliono atterrarsi reciprocamente.

Le questioni ed i conflitti umani sono, anche quando gli angeli intervengono, questioni terrene, materiali, concrete: è in questo piano che vanno risolte e superate. La benedizione dell’uomo/angelo, non vincitore né sconfitto, ha significato perché proviene dall’iniziale “nemico” ed è - oltre che benedizione - riconoscimento positivo di una assoluta alterità. È forse questo il senso del “doppio sogno” di Giacobbe: lo sforzo dell’incontro - che può anche prevedere lo scontro - deve tendere al riconoscimento dell’altro ed alla benedizione che questa alterità rappresenta per ciascuno. Se l’uomo/ umanità, come Giacobbe, è anche protagonista di un sogno/evento narrato dal discorso divino, è le sua umana interpretazione che rende il senso dell’esistenza.
Il Sogno e l’interpretazione. “Tutti i sogni seguono la bocca” (Talmud babilonese, Berachot 55b).

Il sogno, secondo il Talmud, non sembra avere senso e significato in sé: assume quello che gli attribuisce la bocca - ancora un discorso, questa volta umano - di chi lo racconta o lo interpreta. Il bene ed il male del piano onirico sono il risultato di una interpretazione e di una verbalizzazione: il contenuto manifesto è in sé neutro e può assumere tutti i significati che il suo narratore/interprete gli associa.

Il Talmud, che come spesso accade prende l’avvio da un testo biblico, si basa sulla memoria del capo dei coppieri che, quando suggerisce al Faraone di chiamare Giuseppe per avere spiegazione dei sogni delle vacche e delle spighe, ricorda cosa era accaduto al proprio sogno. “Ed accadde che avvenne come aveva interpretato” (Genesi 41,13): è l’interpretazione a generare il senso del sogno, non il sogno a generare l’interpretazione. Se dunque il sogno, un racconto per immagini, viene all’uomo dall’alto - come le storia/la Storia nella Torah -, è però nelle mani dell’uomo renderlo significativo, realizzarlo, farlo materia e non solo evanescenza.
Il libro del mondo.

Il compito dell’uomo sembra essere ascoltare il discorso di Dio, “vedere” le Sue parole. L’ascolto può essere realizzato nella lettura dei due libri costituiti dalle parole divine: la Bibbia e la realtà. Abramo, secondo l’esegesi tradizionale, rispettava già tutta la Torah ancor prima che questa fosse data all’uomo: era in grado di leggere e vedere la parola divina nel grande libro del mondo.

La Torah ed il grande libro del mondo, letti con cuore ed attenzione, sono il sogno divino di una realtà ideale. Se ogni sogno assume il significato che chi lo verbalizza gli attribuisce, allora la strada per tornare a ciò che tutto avrebbe potuto/dovuto essere è forse semplicemente la consapevolezza che tutto dipende dall’uomo. Che gli angeli scendono dall’alto solo se salgono dal basso. Che la benedizione è, nel confronto/scontro senza vincitori né vinti, nel riconoscimento della irriducibile e positiva alterità dell’altro. Che partendo dalla lettura e dall’ascolto della realtà concreta è sempre possibile, per riprendere le parole dette ieri da Andrea Riccardi, una immaginazione alternativa che ci può ricondurre al progetto divino delle origini.



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24 Octobre 2022 | durée: 00

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