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Religioni, dialogo e la difficile cultura della pace in Terra Santa

Parlare di dialogo, pace e giustizia in Terra Santa è sempre faticoso. Compito che si cerca di eludere sempre più spesso, sia per evitare un certo tipo di retorica, che per anni ha riempito riunioni, discussioni e assemblee di vario tipo, e di cui oggi sono un po’ tutti saturi, sia perché dialogo e pace sembrano proprio un miraggio sempre più lontano, che lascia negli animi sensazioni di frustrazione e sfiducia, quando non ribellioni e rassegnazioni. Per questa ragione, in questi ultimi anni cerchiamo quanto più possibile di evitare di parlarne. Considero più fruttuoso parlare di unità, di capacità di buone relazioni come qualcosa di costitutivo della vita di fede, tra noi nella Chiesa e con chiunque altro, piuttosto che di parole come “pace e giustizia”, “speranza”, “futuro”, perché in Terra Santa queste parole sono sentite come lontane dalla realtà e rischiano perciò di scadere nel banale e quindi nell’insignificanza. Sono sempre più convinto, inoltre, che non si può parlare di speranza se non si ha una fede, perché la speranza è figlia della fede. Parlare oggi di speranza, senza porla in un contesto di fede e fiducia, è davvero retorica. Del resto, come diceva il grande professore Heschel, il dialogo tra le fedi, suppone che vi sia fede[1]. È dunque a partire dalla fede che il nostro discorso si deve basare. Più che parlare di religioni in dialogo, quindi, preferirei usare l’espressione “fedi in dialogo”.

Fede e religione sono comunque entrambe necessarie l’una all’altra. La fede sta alla religione come l’anima sta al corpo. L’esperienza di fede, che è fondante la vita di ogni credente e di ogni comunità religiosa, ha anche la necessità di venire in qualche modo “istituzionalizzata”, darsi cioè delle forme e dei linguaggi che siano riconosciuti da tutta la comunità di quella stessa fede.

Non sempre, tuttavia, fede e religione sono in armonica sintonia. Può accadere, infatti che chi vive l’esperienza di fede non voglia o non senta il bisogno o addirittura rifiuti le forme istituzionali, la religione, insomma, con la sua storia e i suoi riti, come se essa fosse una sorta di contraddizione con l’esperienza di fede. È quanto si percepisce abbastanza comunemente, soprattutto tra le giovani generazioni, nei Paesi occidentali, ma anche sempre di più in Medio Oriente. Può tuttavia anche accadere il contrario, che la religione, la forma istituzionalizzata dell’esperienza di fede, si “dimentichi” della sua origine, e che essa, nelle sue forme visibili ed esterne, appaia prevalentemente solo come forma e istituzione e non come un luogo di accoglienza e di espressione della fede, intesa come esperienza di incontro con Dio, di una vita nutrita e sostenuta dalla presenza di Dio provvidente e misericordioso. Forse è questo uno dei motivi del rifiuto della religione - ma non di Dio - da parte di molti giovani.

In Medio Oriente, e in particolare in Terra Santa, di questo facciamo esperienza quotidiana. La religione ha assunto una struttura istituzionale molto invadente, poiché penetra nella vita ordinaria delle diverse comunità che compongono la nostra società. Essa determina non solo il confine tra le comunità, ma anche la vita civile all’interno di ciascuna di esse, è spesso determinante nelle scelte politiche e più in generale nella vita politica governativa. In Terra Santa, insomma, le dinamiche comunitarie, e le rispettive scelte, sono scandite e definite dalle diverse appartenenze religiose e dalle diverse leadership religiose. Il compito di queste ultime sta principalmente nel “difendere” i propri confini identitari, le rispettive narrative storiche e religiose e, riconosciamolo, anche il proprio potere. Difendere i confini identitari e le proprie narrative religiose, inoltre, significa anche difendere precise scelte politiche, con evidenti conseguenze nella vita del territorio e delle comunità che le abitano, palestinesi e israeliane.

Tutto ciò rende il dialogo tra le religioni assai difficoltoso, poiché esso non è mai solo dialogo interreligioso, ma anche dialogo con implicazioni politiche e sociali. La convivenza tra le religioni, insomma, coincide con la convivenza tra le diverse comunità civili e religiose della società. E in una situazione di conflitto, come la nostra, il leader religioso che parla di dialogo, pace e riconciliazione tra le religioni del territorio può anche venire facilmente considerato come uno che rinuncia alla difesa dei diritti della propria comunità, oppure come un utopico, avulso dalla vita reale del Paese.

Cosa fare allora in un contesto simile? In Terra Santa è ancora possibile purificare l’esperienza religiosa dalle sue diverse “contaminazioni politiche”? Come far si che le fedi e le religioni tornino ad essere innanzitutto luogo di incontro con Dio e, di conseguenza, anche di armonia umana?

Va detto che anche in Terra Santa, come in altre parti del mondo, se da un lato si incontra facilmente la religione come elemento di cristallizzazione delle relazioni religiose, politiche e sociali, dall’altro è però anche una Terra ricca di tante esperienze religiose autentiche, dove gruppi, movimenti e associazioni, di carattere religioso, vogliono tornare all’esperienza originaria della propria fede. Desiderano una vita, cioè, dove la fede plasma l’esistenza, ed è ben distinta dai legami politici o da altre forme di potere. Anche in questo caso, comunque, è bene fare attenzione. Il tornare all’esperienza originaria della fede non è esente dal rischio di estremismo, come purtroppo dobbiamo riconoscere. Ma questo è un tema a parte che non ci interessa affrontare ora in questa sede.

Se dobbiamo riconoscere, insomma, che le istituzioni religiose sono in difficoltà, è tuttavia anche vero che nella società vi sono gli “anticorpi”, ci sono cioè persone e luoghi dove la fede è ancora occasione di incontro e di condivisione.

Semplici cittadini, religiosi e no, e tante persone e associazioni che cercano insieme di mostrare amore e attaccamento alla loro fede e alla loro terra, che è fatta di luoghi e di persone, con le loro storie e tradizioni, e lo fanno attraverso iniziative comuni o semplicemente attraverso relazioni di amicizia, che superano i rigidi confini delle appartenenze identitarie e religiose.

Non è questo il momento dei grandi gesti in Terra Santa, non è il tempo – ripeto - nel quale attendere dalle istituzioni religiose e politiche capacità di visione e di profezia. Le istituzioni arriveranno, prima o poi, ma nel frattempo bisogna lavorare ed operare laddove le persone sono disposte a mettersi in gioco, a spendersi per ripulire il volto - troppo spesso sfigurato - della propria fede e religione, attraverso le loro iniziative di dialogo e di incontro, di preghiera e di condivisione.

Vi sono iniziative di carattere più civile e altre di carattere religioso, tutte accomunate dal desiderio di dare espressione concreta all’incontro e al dialogo.

Penso ad esempio al Jerusalem Intercultural Center. Composto da israeliani e palestinesi, ebrei, musulmani e cristiani, si occupa di migliorare la vita degli abitanti della città santa, a prescindere dalle loro appartenenze. Abbiamo poi le scuole cristiane della città. È uno dei contributi significativi che la comunità cristiana offre ai suoi concittadini. Sono quasi diecimila gli studenti che passano nelle nostre scuole, in prevalenza musulmani e cristiani, e ai quali è data la possibilità di crescere, studiare e formarsi insieme. Ma è conosciuta anche l’iniziativa della rete scolastica Hand-in-hand, dove ragazzi israeliani e palestinesi studiano insieme. Se le istituzioni tendono a vedere solo la propria narrativa religiosa e a negare quella altrui, se cioè non si vogliono riconoscere le differenze, il semplice stare insieme a scuola, ciascuno con la sua identità, diventa un gesto significativo. In questo modo, quelle scuole educano indirettamente ad accogliersi e a rispettarsi reciprocamente ciascuno nella sua identità. Non siamo obbligati a condividere le opinioni, ma possiamo rispettarle. L’amicizia non è costretta dentro i confini della propria identità, ma la supera.

Vi sono insomma innumerevoli iniziative di formazione e di informazione organizzate da varie associazioni pubbliche e private.

Sono solo alcuni degli esempi di vita esistenti in Terra Santa. Sotto la superficie di contenziosi e divisioni, dei vari Status-quo, scorre un fiume di umanità bella, di uomini e donne che si mettono in gioco per dare espressione al desiderio radicato nel loro cuore di amore a Dio. Persone che desiderano incontrare il fratello e la sorella che vive accanto a loro e che rifiutano di credere sia un estraneo o addirittura un nemico. Non si accontentano di vivere di stereotipi, ma si pongono domande e cercano risposte direttamente e sinceramente.

È lì che ancora oggi si fonda la nostra speranza. E in questo senso la Terra Santa, contrariamente a quanto si pensa, può davvero essere modello di convivenza e di dialogo. Solo lo spettatore superficiale si limiterà alle solite considerazioni delle difficoltà e delle divisioni della città che, pur esistenti, non esprimono tuttavia l’intera verità. L’osservatore attento saprà riconoscere, sotto la superficie complessa della vita sociale del paese, un mondo di relazioni meravigliose e ricche

In conclusione.

In questo momento particolare, le grandi istituzioni religiose sono forse in difficoltà e ci vorrà tempo perché riprendano la necessaria freschezza e libertà, che però sono certo arriverà un giorno. Dobbiamo riconoscerlo senza farci illusioni.

Ma ciò non significa che le esperienze di fede non siano capaci di parole e gesti di profezia. Profezia oggi significa avere il coraggio della parresia nei luoghi di ingiustizia e dolore, ma significa anche avere il coraggio della speranza, della fiducia, del desiderio sincero di incontro, del rifiuto di ogni forma di paura. In un tempo dove si vive solo il presente, scommettere su un futuro che sarà certamente diverso e costruito dal nostro desiderio di pace.

La mia esperienza mi dice che è ancora possibile. Non dobbiamo attenderla dai grandi, ma possiamo vederla nei piccoli. E saranno loro, i piccoli del vangelo, quelle istituzioni che ho citato, ma tante altre, sconosciute ai più, ma reali e presenti nel territorio, che ci dicono che la fede ancora oggi può generare vita, e desiderio

 

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[1] “The first and most important prerequisite of interfaith is faith” (A.J. Heschel, «No Religion is an Island», Union Seminary Quarterly Review 21/2 (1966) 123).