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Leonardo Palombi

Comunità di Sant'Egidio, Italia
 biografia
Il titolo di questa tavola rotonda mi sembra cogliere un aspetto ed una sfida fondamentali per le nostre società:  il valore della vita fragile. Non si tratta di qualcosa di marginale, ma di un elemento centrale su cui le religioni e le culture del nostro tempo debbono interrogarsi  perché la vita fragile è in qualche modo diventata il destino di tutti e certamente il presente di centinaia di milioni di persone. Definire la fragilità non è facile, né immediato. Molti modelli sono stati proposti e tutti catturano alcuni aspetti fondamentali di questo diffuso fenomeno: è fragile secondo Strawbridge colui che perde la capacità di assolvere ad alcune funzioni in ambiti fondamentali come la memoria, le capacità sensoriali, l’alimentazione, la mobilità. Altri come Rokwood definiscono la fragilità come un accumularsi di deficit ed handicap di varia origine.  Infine Fried parla della vita fragile come di un ridursi delle riserve vitali e delle capacità di reazione ad eventi della vita quotidiana. Mi sembra di poter cogliere un elemento unificante nella varietà delle definizioni: che sia un declino, una ridotta resistenza,  o un assottigliarsi delle proprie riserve vitali la fragilità giunge comunque ad essere una condizione in cui si scopre di non poter bastare a se stessi ma di aver  bisogno di un altro. Al fondo la vita fragile è il manifestarsi di questo bisogno fondamentale dell’aiuto di un altro nella propria esistenza. 
Questa necessità è percepita spesso come un fatto intollerabile nelle nostre società così individualiste, che esaltano l’autosufficienza come vera libertà, la gioventù come autentica espressione della vita, vitalità e forza libere dalla malattia. Potremmo forse aggiungere che questo conflitto tra vita fragile ed esaltazione di sé permea moltissimi aspetti delle nostre società. Di più, assai spesso c’è un interiore conflitto tra quel che si è o si diverrà e quel che si desidera. Si stima che sia fragile il 30% della popolazione nei paesi del nord ricco del mondo in conseguenza della vecchiaia, delle malattie, della povertà, dell’isolamento sociale. Una percentuale che sale in modo drammatico nei paesi a risorse limitate poiché investe in misura molto maggiore l’infanzia. 
Viviamo, è forse il caso di ricordarlo, in un mondo affollato di fragilità. E questo, paradossalmente, è il risultato di una storia di sviluppo e di grandi traguardi che ha coinvolto il mondo intero negli ultimi due secoli. 
Infatti, forse, la prima cosa da dire è proprio questa: la vita fragile aveva, nel 1800, il volto di una infanzia devastata dalle malattie infettive. Malattie brevi quanto violente, che producevano decessi nelle prime età della vita in quantità tale da abbassare l’età mediana di morte, in Italia, ai 4 anni. In altri termini, la metà degli scomparsi non arrivava alla soglia dei 5 anni e davvero solo un resto, un esiguo resto, giungeva alla vecchiaia. Si calcola non fosse più del 3% dell’intera popolazione. Agli albori del ‘900 le nostre erano società di bambini e di giovani adulti attraversate sì dalla malattia, ma anche colme del vigore della gioventù.
Poi molte cose sono cambiate in società europee incagliate in un equilibrio demografico di antiche origini, che bilanciava un’alta mortalità con una altrettanto alta natalità. La rivoluzione industriale ed i suoi effetti sul reddito e l’alimentazione delle popolazioni nel Regno Unito, in Francia, Italia, Germania, Spagna e poi nell’Europa dell’est modifica in profondità il panorama demografico: la marea dei decessi  per malattie infettive si ritrae dai confini dell’infanzia liberando ampio spazio per la sopravvivenza  verso l’età adulta e la vecchiaia. In pochi decenni le popolazioni di questi paesi sono cresciute moltissimo avviandosi a cambiar volto, da quello dei bambini alle sembianze ormai sempre più diffuse, dell’anziano. Numerosi altri fattori contribuiscono a questo cambiamento, certamente anche la sanità pubblica e la medicina in tempi più recenti. 
L’invecchiamento delle popolazioni, conseguenza della crescita assoluta degli ultrasessantacinquenni, ma anche della costante riduzione della natalità non è, come del resto la transizione demografica sin qui descritta, fenomeno esclusivamente europeo. Al contrario, si tratta di un processo che va estendendosi a tutto il mondo. Il risultato è che gli anziani sono oggi oltre 800 milioni e diverranno 2 miliardi entro il 2050. La crescita dell’attesa di vita si è accompagnata ad una trasformazione profonda, dicevo, della malattia: non più, o almeno non tanto e non solo brevi e violenti eventi infettivi, ma numerose  patologie che accompagnano per decenni il declino della nostra salute. Diabete, ipertensione, enfisema, arteriosclerosi, malattie osteoarticolari, disturbi cognitivi e della memoria creano la vita fragile, soprattutto negli anni della vecchiaia. Possiamo curare ma non guarire, possiamo lenire ma non scacciare la malattia e la fragilità dal nostro orizzonte umano. 
Io credo ci troviamo di fronte ad un bivio. Espellere la vita fragile o comprenderne il profondo valore umano? C’è una diffusa tentazione di negare la fragilità. Non è infatti difficile accorgersi di come una certa  cultura del rifiuto tragga la propria forza dall’idea che gli anziani – e più in generale coloro che sono afflitti da condizioni croniche invalidanti – siano uno scarto. Scarto improduttivo se non addirittura peso sociale, economico, contributivo, gravame sulle spalle dei più. Non ci si rende conto che quello degli anziani è il nostro volto, il nostro destino, la stagione futura delle vite di tutti noi. 
Se la vita fragile diviene inutile, è tutta la vita a perdere valore, perché la fragilità sarà la condizione delle ultime decadi per ognuno di noi. E’ scritto nel nostro futuro. E non si può “abolire” la debolezza o la malattia con una eutanasia più o meno esplicita, così come avviene già oggi in Europa ed in Italia. O con quella che papa Francesco chiama eutanasia nascosta.  E’ una tragica semplificazione quella di voler spegnere la fiamma smorta di una vita fragile. C’è una tradizione bella e antichissima della Chiesa che è l’accompagnamento alla buona morte. La stiamo sostituendo con pratiche che apertamente o subdolamente danno la morte.
Io credo che sulla fragilità e la debolezza si possa, anzi si debba aprire un confronto serio, non ideologico, tra le religioni e soprattutto con una cultura laica ispirata ad un senso “prestazionale”, giovanilistico della vita. Un confronto che parta dalla serena accettazione che la fragilità è un dato insostituibile, inestricabilmente connesso alla nostra vita. Sorge il dubbio che nella vita fragile si esprime tanto della nostra umanità. Diceva in una recente intervista Mario Melazzini, medico, malato di SLA: “Credo nel valore della vita, la amo in tutte le sue manifestazioni. Mi sono reso conto di quanto sia importante, per una persona fragile, il sentirsi considerata, il sentire che esiste anche quando si trova a vivere in determinate situazioni”. Forza e debolezza si intrecciano nella testimonianza di Melazzini. L’apostolo Paolo nella seconda lettera ai Corinti afferma “Perciò mi compiaccio nelle mie infermità... quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12, 9-10). Per i credenti la debolezza e la fragilità sono un aiuto a riscoprire il sostegno decisivo della grazia di Dio. Ma la debolezza non diviene anche per i laici occasione di apertura? Non rappresenta un modo per smetterla di confidare solo in se stessi? Io credo che ci sia un terreno di confronto comune attorno ad alcuni diritti che la vita fragile suscita.
Vorremmo tutti per la nostra vita fragile alcune garanzie, alcuni diritti. Il diritto a non soffrire. Il diritto a non essere abbandonato e a non finire in solitudine i miei giorni. Il diritto alla vera dignità: essere ascoltati, rispettati, accuditi, nutriti, in una parola, amati. Sono convinto che se sapremo dare questi diritti ai giorni della nostra fragilità avremo salvato anche la nostra civiltà.