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Domenico Sorrentino

Katholischer Erzbischof, Italien
 biografie
Il 27 ottobre 1986, giorno del celebre incontro di preghiera per la pace convocato da Giovanni Paolo II, è diventato ad Assisi  qualcosa di più di una data memorabile. 
È diventato un progetto  di preghiera, scandito  da un appuntamento che unisce il  27 di ogni mese   cattolici, cristiani di diverse confessioni,  esponenti di altre religioni,  in una cordata di preghiera per la pace. 
A tale scopo si focalizzano di volta in volta precise aree del mondo interessate da   situazioni di guerra o di grave tensione sociale. Abbiamo recentemente pregato guardando al conflitto israelo-palestinese, alle violenze in Congo, Sud Sudan, Yemen, Siria, Eritrea, alle problematiche del Venezuela, del Nicaragua, del Messico. 
La causa della pace ha certamente bisogno di un dialogo fatto di paziente tessitura di rapporti, nella sinergia di istituzioni credibili e autorevoli, a partire dall’ONU. Non deve però mancare, in questa geopolitica del dialogo, il dialogo con Dio. Assisi, grazie all’iniziativa posta da papa Wojtyla trentadue anni fa, radicata a sua volta nella testimonianza evangelica di Francesco di Assisi, si fa portatrice di questa istanza.  
 
Ciò costituisce il  messaggio proprio dello “spirito di Assisi”. Quando Giovanni Paolo II lo inaugurò, fece un atto di profezia che non riguardava direttamente i pur necessari ambiti  dell’impegno sociale, economico e politico a servizio della pace, ma guardava al mistero in cui l’umanità gioca la sua partita della pace, il  mistero della  dialettica tra bene e male che abita da sempre il cuore dell’uomo, e che, ogni volta che vince il male,  spinge a sentimenti e comportamenti i quali, prima o poi, diventano guerra:  guerra dell’uomo con se stesso, delle persone tra di loro, dell’umanità con il cosmo che lo circonda, dandoci l’esito del disastro ambientale. 
 
Porre il problema della pace  in termini di una geopolitica della preghiera, è partire dalla radice, nella convinzione che è a questo livello, nell’intimo del cuore umano, che si fanno le scelte decisive.  
 
L’appello alla preghiera può stupire chi non ha il senso della   preghiera e la considera perfettamente inutile ai fini storici e pratici. Non è così nella prospettiva del cristianesimo e dei credenti autentici di tutte le religioni.  
 
Non ci sfugge l’obiezione   di chi rileva – storia alla mano –  che è  difficile individuare preghiere che abbiano scongiurato  guerre. Per giunta, è un fatto  che   molte guerre si sono addirittura combattute al ritmo della preghiera, invocando il “Dio degli eserciti”. C’è poi nella storia la pagina inquietante e scandalosa delle guerre di religione.  
È un tema che Benedetto XVI affrontò, nella lettera che, dodici anni fa (2 settembre 2006),    mi indirizzò, in occasione di un  incontro “Uomini e religioni” promosso dalla Comunità di Sant’Egidio ad Assisi.   Papa Ratzinger  sottolineava che “la religione non può che essere foriera di pace” e rispondeva alle perplessità: «Si potrebbe obiettare che la storia conosce il triste fenomeno delle guerre di religione. Sappiamo però che simili manifestazioni di violenza non possono attribuirsi alla religione in quanto tale, ma ai limiti culturali con cui essa viene vissuta e si sviluppa nel tempo. Quando però il senso religioso raggiunge una sua maturità, genera nel credente la percezione che «la fede in Dio, Creatore dell’universo e Padre di tutti, non può non promuovere tra gli uomini relazioni di universale fraternità». Insomma, la violenza di matrice religiosa è legata a una fase di “immaturità” della religione stessa.
 
Purtroppo è possibile una religione immatura, come è possibile una preghiera non autentica. Se la prima non è immune da guerre, e addirittura può scatenarle, la seconda non ferma le guerre, e talvolta le copre e  sostiene con un misticismo malsano. 
Occorre dunque purificare la preghiera.  «Pregate e non ottenete, perché chiedete male»,   ammonisce la lettera di Giacomo (4,3). 
Il vangelo  insiste sull’efficacia   della preghiera – «chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto» (Lc 11,9) –  ma distingue   una preghiera autentica  e una preghiera non autentica:   «Non chiunque mi dice: Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli,  ma colui che fa   la volontà del padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21)
 
L’invito a pregare è dunque anche invito alla conversione. La decisione di pregare implica un impegno a convertirsi.
La preghiera  è una grande pedagogia, attraverso la quale Dio costruisce nell’animo umano le condizioni previe del suo dono. È  la   pedagogia dell’alleanza. Dio non ama fare tutto da solo:   chiama l’uomo ad essergli partner nella costruzione della storia.      
Pregare è inoltre riconoscere la condizione di limite in cui versiamo. È fare un atto di verità e di umiltà:  ingredienti senza i quali  nessuna pace è possibile. 
Pregare è guardare le cose con lo sguardo di Dio, che ama tutti i suoi figli, ma predilige quelli più poveri e sofferenti. Significa anche,  per chi prega,  sapersi mettere sempre nei panni di chi soffre e subisce violenza, indipendentemente da dove egli si colloca rispetto alle geopolitiche mondane ispirate al potere, agli interessi economici e politici, alla voglia sempre risorgente di  egemonie,  colonialismi e imperialismi.   Significa per questo anche assumere con coraggio un atteggiamento di accoglienza, verso chi fugge dalla guerra e dal bisogno, superando le derive delle chiusure nazionalistiche dettate da paura, xenofobia, razzismo. 
 
Per questo, nonostante tutti i panorami demoralizzanti di guerre che nessuno sa fermare, noi credenti mettiamo in campo la geopolitica della preghiera.  
Una strada che va imboccata non da uno, o da pochi, ma da tanti: sarebbe fin troppo comodo che una singola preghiera  risolvesse, come per magia, problemi di pace che spesso affondano radici nei secoli.
La preghiera non agisce in maniera magica, ma responsabilizzante. Dunque tutte le altre risorse della responsabilità, a livello politico, economico, culturale, devono essere poste in atto. Ma è anche evidente che nessuna iniziativa potrà essere efficace se non si aprono i cuori, e la preghiera aiuta ad aprirli. 
 
La geopolitica della preghiera si pone così a sostegno della geopolitica del dialogo: inserisce il dialogo con Dio nelle dinamiche dei dialoghi di pace.
Mi sia consentito pertanto concludere chiedendo adesioni a questa cordata di preghiera, con l’auspicio che crescano quanti, il giorno 27 di ogni mese, si danno convegno   per la pace in questo appuntamento spirituale che  unisce  idealmente nella Città di San Francesco oranti-costruttori di pace di tutte le latitudini, religioni e culture del mondo.