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José Tolentino Mendonça

Théologien et écrivain, Portugal
 biographie
Se torniamo su quella conferenza che il sociologo Zygmunt Bauman pronunciò all’Incontro di Preghiera per la Pace di Assisi, nel 2016, vediamo come essa è diventata una sorta di suo lascito di fiducia nel futuro. In quell’occasione, Bauman, allora novantunenne, si mise a riflettere sull’umanità passata e futura facendo la storia del pronome “noi”. Ricordo di averlo sentito dire che questa parola decisiva iniziò il suo percorso nella forma più restrittiva, poiché i gruppi umani proteggevano la propria identità chiudendosi in aggregati minuscoli. Il primo “noi” della storia umana, per esempio, non doveva superare l’esiguo numero del centinaio di individui. Al di là di questo, i primi umani non riuscivano a dire “noi”. L’umanità era allora composta da bande di cacciatori e raccoglitori che si muovevano assieme e assicuravano il nutrimento al loro gruppo. Il “noi” terminava bruscamente a quelle frontiere. Tutto il resto era “altro”. E l’altro era visto come nemico. 
Col passare del tempo, il numero di quanti rientravano nel “noi” andò crescendo e si giunse così alle successive nozioni di tribù e di comunità, di nazione e di impero. Dallo strettamente locale si passò al globale. Per descrivere tale meccanica della storia, Bauman insisteva su due principi: il primo è che l’edificazione della civiltà (tanto nel passato come nel presente) si è sempre data nell’oscillazione tra esclusione e inclusione; il secondo, è che la civiltà è avanzata soltanto quando è riuscita ad allargare le frontiere dell’inclusione e a far regredire la pratica dell’esclusione. Per questo egli affermava che il nostro futuro dipende dalla capacità di espandere il pronome “noi” e di ridurre lo spazio concesso al pronome “loro”, cosa che potrà avvenire solamente se sapremo dar vita a una società più empatica, umana e dialogica. 
In uno degli scritti di Wittgenstein si legge una cruda metafora che purtroppo rischia di diventare emblematica della nostra contemporaneità. Dice il filosofo che noi assomigliamo a un uomo che guarda il mondo attraverso i vetri opachi di una finestra chiusa. Vediamo l’ombra di chi passa per la via, non ne comprendiamo però gli strani movimenti. In realtà, essendo noi ben protetti nella nostra casa, non ci rendiamo conto che là fuori è scoppiata una tempesta e che coloro che noi intravediamo si mantengono in piedi a fatica. 
 
Il mondo diviso tra “noi” e ”loro” è un mondo basato su una visione attraverso vetri opachi, che quindi induce a molte deformazioni di giudizio. Sappiamo come l’insistenza sulla contrapposizione dualista favorisca l’ostilità e la paura, anziché incoraggiare l’ospitalità e la percezione del bene comune. La verità è che le nostre società devono imparare a coniugarsi maggiormente alla prima persona del plurale, coinvolgendo i cittadini in una politica della speranza di dimensioni collettive. 
 
Siamone certi: l’esperienza della pandemia sarà servita a qualcosa solo se avrà attivato meccanismi di costruzione del “noi” che partano dalla coscienza che, come ha affermato papa Francesco, «siamo tutti sulla stessa barca» e che «nessuno si salva da solo». Invece di dire “loro”, dovremmo essere più capaci di dire “noi”. Parlando dei poveri, degli esclusi dalla prosperità economica, della moltitudine di quanti sono condannati dal mercato alla fragilità, dei giovani a cui non viene offerta una prospettiva del domani, degli anziani considerati un peso dalle nostre società, dovremmo avere la capacità di dire “noi”. Parlando dei migranti e dei rifugiati, dovremmo essere capaci di dire “noi”, fondandoci sul riconoscimento di una condizione comune. 
 
In quella sua conferenza/testamento, Bauman ricordava che non abbiamo ancora trovato gli strumenti per mettere in atto il “noi”. In questo senso, credo, un compito urgente per l’attuale stagione è appunto riscoprire la parola “noi”.