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Paolo Impagliazzo

Generalsekretär der Gemeinschaft Sant'Egidio
 biografie
Nell’immaginario di molti, il carcere è quel luogo dove rinchiudere tutto il male perché fuori rimanga tutto il bene. Il contenitore dei nemici della società. Ma nella realtà il carcere è sempre di più quello che qualcuno ha definito la “discarica della società”. In carcere infatti, sono amplificati i fallimenti della società: una umanità povera, marginale, periferica, lasciata senza scuola e senza cultura, incapace di esprimersi, a cui mancano le parole, in alcuni casi analfabeta e non mi riferisco solo ai detenuti stranieri, senza formazione e senza lavoro. Il carcere è il luogo dove si vivono in maniera coatta i conflitti che affliggono la società di fuori, dove si sente ancora più pesante il fallimento e la disgregazione della famiglia. In carcere ruggisce il demone delle dipendenze che schiavizza l’uomo e che viene affrontato con un uso spropositato degli psicofarmaci che sostituiscono una dipendenza con un'altra. Non ci si prende cura delle persone, non si progetta un futuro, si aspetta che la detenzione finisca per poi riaprire le porte, nel giro di poco tempo, in una spirale mai interrotta.
 
Per chi è familiare con i detenuti non è difficile capire che la visita in carcere riassume in sé la parabola del giudizio finale di Mt 25 perché il carcerato ha fame, ha sete, è nudo, è straniero, è malato. (Cfr Mt 25,31-46). 
 
La Comunità di Sant’Egidio da tanti anni visita e serve in Italia, Europa e in Africa i carcerati, prendendosi cura di loro. Tutto parte dall’ascolto delle grida di dolore e di rabbia ma anche di chi è muto, di chi chiuso nella propria rassegnazione o isolato, non riesce a far sentire la propria voce. Di tutti vogliamo raccogliere i bisogni ma soprattutto vogliamo raccogliere le domande sul senso della vita.
 
Scrive Ali dal carcere di Regina Coeli: “Sto passando un bruttissimo momento, il buio nella mia vita. In questo buio avendo conosciuto voi, vedo una luce in fondo al tunnel. Io ho bisogno del vostro aiuto perché in voi trovo persone che non giudicano e credetemi qui dentro gente come voi è difficile trovare”.
 
La Comunità si prende cura concretamente della loro salute, dell’igiene personale, della giusta alimentazione, dell’abbigliamento, di tutto quello di cui c’è bisogno attraverso i colloqui personali e le distribuzioni che ci permettono di incontrare anche chi non ci cercherebbe mai, gli invisibili. Nell’esperienza di Sant’Egidio è importante cercare e creare le occasioni per l’ingresso di tanti amici negli Istituti penitenziari e non solo quindi per gli “addetti ai lavori” per sconfiggere lo stigma dell’isolamento e dello scarto.
 
Allo stesso tempo la Comunità propone di crescere insieme nella conoscenza delle Scritture, invita a partecipare alle preghiere per la pace e per i malati, ai laboratori di pace che sono momenti di formazione e riflessione su tanti temi dalla convivenza alla pace, dalla poesia alla Costituzione. Vivere insieme le feste religiose, come il Natale, la Pasqua e la festa dell’Aid è un modo per essere famiglia con chi è separato dalla propria famiglia. In carcere infatti la  separazione dalle famiglie morde di più! Ed è bello e importante essere famiglia per chi la famiglia non ce l’ha. 
 
Scrive Aziz in occasione della festa per la fine del Ramadan in un carcere italiano: “Salam Aleikum, da una persona di pace alla comunità della pace. Ho visto il vostro invito (alla festa dell’Aid) nella bacheca del reparto e sono stato felicissimo, come ricevere una lettera da mia madre! Io vi voglio ringraziare per la vostra vicinanza a noi giovani carcerati arabi musulmani. Io prego per la Comunità perché voi siete il mio genitore in Italia che mi ha fatto sentire come in una famiglia lontano dalla mia terra”.
 
“Dove sei?” chiede il Signore ad Adamo che si nasconde e ha paura dopo aver disobbedito. In questa domanda è racchiusa la preoccupazione di Dio per chi ha peccato. E’ il Signore che fa il primo passo, che cerca la riconciliazione, che è anche una domanda che interpella la responsabilità di Adamo. Dio non vuole annientare Adamo ma ridargli la vita. La pena è insita nell’esperienza del male che non appaga l’uomo ma lo rende infelice. 
 
Allo stesso modo il Signore chiede a Caino “Dov'è Abele, tuo fratello?”. Anche qui è il Signore fa il primo passo. La vita, anche se sbagliata, è sempre protetta da Dio. Scrive Jaques Maritain ne “Le cose del cielo”: “per il sangue di Cristo, la vita più mancata, la vita più fallita, può pagare e generare, essere feconda come né angeli né anime separata possono essere”.
 
Nel Vangelo poi, è Gesù a compiere il primo passo e a farsi medico dei peccatori. Gesù si fa carico della sofferenza dell’uomo, lo riabilita, gli restituisce la dignità perduta. Quanti esempi!; è Gesù che invita Levi, pubblicano ed esattore delle tasse, è Gesù che prende l’iniziativa con il corrotto Zaccheo, che siede a mensa con i peccatori. E la prima comunità cristiana fa proprio questo insegnamento come possiamo leggere nella seconda lettera ai Corinzi 2, 5-8 : “Se qualcuno mi ha rattristato, non ha rattristato me soltanto, ma , in parte almeno, senza esagerare, tutti voi. Per quel tale però è già sufficiente il castigo che gli e venuto dalla maggior parte di voi, cosicché voi dovreste piuttosto usargli benevolenza e confortarlo, perché egli non soccomba sotto un dolore troppo forte.”
 
Al di là della logica della retribuzione quello che più interessa è che non sia danneggiata la relazione con Dio e con l’altro, considerate come bene massimo da salvaguardare. E’ questa relazione che va custodita e ristabilita attraverso la riconciliazione tra le parti, in un rapporto interrotto a causa di un torto fatto o subito. Afferma Mons. Paglia con chiarezza: è l’amicizia, la philia, il vero fondamento della convivenza non la giustizia. Occorre quindi per prima cosa ristabilire un rapporto di convivenza. 
 
Nella visita ai detenuti, nell’ascoltare le loro domande, e ci tengo a sottolineare anche quelle inespresse, da questo dialogo e solo attraverso questo si sconfigge la solitudine, il pessimismo e la disperazione, si ritrova il senso della propria vita. E’ attraverso questo dialogo che si riacquista la dignità e si è liberati dal male. 
 
Scrive con una vena poetica Maurizio, detenuto nel carcere di Rebibbia: “Poter ringraziare riconoscendo un errore: è doveroso guardare dentro il proprio cuore. Una parola, uno sguardo, un abbraccio, la vostra presenza nella chiave che apre una porta chiusa da me molto tempo fa. Nel riaprirla con il vostro aiuto e vedere la bellezza di un cielo pieno di nuvole. Spero di essere in grado di esprimermi nel dirvi che grazie a voi non sono morto.”
 
La visita e l’amicizia aiutano a guardare nel proprio cuore, a riconciliarsi, a ricominciare a vivere, a non morire. E attraverso questo incontro e questo dialogo che si trova consolazione e si ricompone la famiglia umana, che si costruisce la famiglia larga dei figli di Dio.
 
Scrive un altro detenuto, Francesco: “Non pensavo mai che nel mondo ci fosse questa grande famiglia di grande affetto e straordinaria dolcezza che ti può far sentire che nel mondo non sei una persona indesiderata ma tutt’altro, che fai parte della loro famiglia. Anche io che sono carcerato e che sentivo tanta vergogna per quello che mi era successo. Ma voi, con la vostra dolcezza, mi avete abbracciato come un fratello maggiore e mi avete detto che non ero abbandonato ma insieme a voi”
 
Con la dolcezza e senza pregiudizio si può cominciare un percorso di riconciliazione, si possono prendere per mano le persone, ridarle un posto nella famiglia umana e non farle più sentire indesiderate. 
 
E così che si ritrova la dignità anche di poter far parte di quel popolo che cerca la pace sostenendo la missione del Cardinal Zuppi. Scrive un amico detenuto: “In questo momento di guerre e conflitti l’umanità si sporge vertiginosamente sull’orlo di un precipizio. Anche noi detenuti cerchiamo la pace con la benedizione di papa Francesco. Ponendo la mano sul nostro cuore e unendo le nostre preghiere assieme al Cardinal Matteo Zuppi il quale rappresenta tutte le nostre speranze in Ucraina. Ci stringiamo in preghiera per questa importante missione di fede e di speranza. E perché finisca l’inutile spargimento di sangue”.
 
Insieme ci si libera dal pensiero concentrato su di sé, sulle proprie difficoltà, che sono tante, e si allarga lo sguardo al mondo di fuori, si riacquista la forza per prendersi cura della pace e degli altri. Tanti detenuti hanno partecipato negli anni alla campagna “Liberare i prigionieri in Africa” per sensibilizzare sulle condizioni dei detenuti in Africa e raccogliere fondi per sostenere la liberazione di tanti prigionieri che, finita l’espiazione della condanna detentiva, non vengono rimessi in libertà perché non possono pagare le multe che spesso ammontano a cifre modeste. E oltre a ciò per la costruzione di cisterne per l’acqua potabile, l’allaccio all’acqua corrente, la ristrutturazione dei bagni, la distribuzione di saponi e zanzariere, cibo, materassi e molto altro ancora. Essere presi sul serio, ritrovare la dignità di poter essere utili agli altri, liberare i prigionieri, cambiare le condizioni di vita di detenuti lontani migliaia di km ridona speranza agli uni e agli altri.
 
La Comunità vuole superare il muro fisico e mentale che divide chi sta fuori da chi sta dentro le carceri, uscire dalla logica che tutto il male sta dentro e tutto il bene fuori e ricostruire la convivenza pacifica nei quartieri e nelle carceri, fra il dentro e il fuori, costruire la Comunità. 
 
E’ nostra responsabilità lavorare con intelligenza per aprire il cuore e la testa e far si che il carcere interpelli il mondo della cultura, le nostre comunità, la chiesa. Convinti che la vittoria con un uomo liberato è una vittoria di tutti.