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John J. DeGioia

Rettore della Georgetown University, USA
 biografia

E’ un onore per me essere di nuovo con la comunità di Sant’Egidio e partecipare alla preghiera per la pace, impegnarmi nel dialogo e nel confronto con tanti illustri membri della comunità globale.
E’ anche particolarmente pertinente confrontarci oggi sull’accoglienza agli stranieri qui a Cipro. Come molti di noi sanno Cipro ha dato i natali a Zenone, il fondatore dello stoicismo. Gli stoici sottolineavano l’importanza della fratellanza e si dicevano “cittadini del mondo” (Stobaeus 2.77)
Un uomo che certamente comprese questa idea di fratellanza universale, cioè essere un membro della comunità globale,  è stato l’ultimo presidente egiziano Anwar el Sadat. Fu proprio in questo stesso giorno, più di 30 anni fa, che egli accettò formalmente l’invito a visitare Israele per iniziare quel processo che metterà fine alla guerra durata tre decenni tra Israele ed Egitto.
Il punto cruciale della sua azione fu la sua abilità a superare quella paura innata che spesso ci assale quando abbiamo a che fare con persone differenti da noi, persone che non condividono la nostra stessa cultura, la nostra fede e ideali. Persone che per i nostri pregiudizi personali o culturali, ci sarebbero antipatiche o di cui diffideremmo.

Il nodo della nostra discussione di oggi è proprio vincere quella paura: Xenophobia e Philoxenia:  accogliere lo straniero. Poiché non c’è solo una tensione naturale tra paura e amore, c’è una naturale inclinazione dell’uomo alla paura, per rimanere  dentro il nostro mondo sicuro e confortevole. Ma, in quanto esseri  permeati da una scintilla divina, come figli di Dio, siamo chiamati a non aver paura, ad amare,  non solo ad accogliere gli stranieri ma a riconoscerli in mezzo a noi e a farci loro vicini.
Virtualmente ogni grande tradizione religiosa richiede di abbracciare lo straniero. Nel Nuovo Testamento cristiano, Gesù ci dice di accogliere lo straniero (cfr Mt 25,25). Il Corano ci dice che dovremmo “fare il bene a …. quelli che sono vicini, ai vicini che sono stranieri…. al viandante che incontriamo” (4,36). Nella Torah ascoltiamo che “lo straniero che dimora presso di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi, e lo amerai come te stesso” (Levitico 19, 33-34) 
Non ci sorprende che il racconto dell’accoglienza allo straniero è comune alle origini di tutte e tre le religioni monoteistiche. Nel libro della Genesi, leggiamo che tre uomini si avvicinano alla tenda di Abramo. Abramo, combattuto tra cedere alla paura e lasciarsi andare all’ amore, sceglie di non volgere le spalle agli stranieri, ma di abbracciarli. Divide volentieri con loro il proprio cibo e gli stranieri si rivelano a lui come messaggeri di Dio.
Questo racconto biblico dell’ospitalità di Abramo si colloca in un’epoca assolutamente diversa dalla nostra. Era un tempo in cui era probabilmente più semplice riconoscere uno straniero e mettersi a sua disposizione. Quando esaminiamo questa storia di Abramo da un’ottica moderna, ci poniamo tre domande:

- la prima, in un contesto contemporaneo chi è lo straniero che siamo chiamati ad accogliere?
- la seconda, perché è una necessità categorica nel nostro mondo accogliere lo straniero?
- infine, la terza domanda, cosa significa nel suo senso più pieno accogliere lo straniero nel XXI secolo?

Queste sono le tre domande di cui voglio discutere con voi oggi.
Se consideriamo la prima domanda “Chi è lo straniero?” lo straniero è qualsiasi persona che può essere considerato l”altro”, qualcuno le cui origini o convinzioni, esperienze od opinioni sono molto diverse dalle nostre. Lo straniero è l’immigrato, il rifugiato, il clandestino  che viene in mezzo a noi senza essere invitato. Lo straniero è la persona che vive nelle nostre comunità la cui razza o classe sociale o stile di vita, le cui idee ed ideali sono diversi dai nostri. Straniero è anche chi è solo,  dimenticato, sofferente. Lo straniero, l’altro, è chiunque la cui cultura, fede, nazionalità differisce dalla nostra.

Lo straniero è anche quella grossa parte della popolazione mondiale che non accede in parte o del tutto  alla ricchezza e ai benefici della globalizzazione. Sappiamo che  tre miliardi di persone vivono con due dollari al giorno, un miliardo vive con meno di un dollaro, il 60% della popolazione mondiale vive con solo il 6% del reddito mondiale, intere popolazioni sono sfruttate, emarginate e dimenticate.

Ma perché accogliere, abbracciare gli stranieri, gli altri oggi è così fondamentale nelle nostre comunità e nella comunità globale? Questa è la nostra seconda domanda.
Sappiamo che accogliendo gli immigrati nelle nostre nazioni e anche  i rifugiati che già vivono tra di noi, diventeremo comunità migliori.

L’accoglienza è anche particolarmente importante a livello mondiale,  raggiungere ed abbracciare tutti quelli che nel mondo non condividono la nostra cultura, fede, nazionalità. Anwar Sadat ben comprese questo problema. Dopotutto sappiamo che il nostro mondo sta diventando più piccolo. Le nazioni dipendono sempre più l’una dall’altra, gli individui sono più interconnessi e la comunità globale è meno divisa. Sfortunatamente, mentre il nostro mondo è diventato più stretto, sono aumentate la polarizzazione e la tendenza al conflitto. A livello internazionale tutto ciò si è espresso in atti di terrorismo in varie parti del mondo, nella pulizia etnica nei Balcani, in Ruanda e in altri luoghi, nei conflitti in Medio Oriente, Sudan, Sri Lanka, Cecenia, Timor est e addirittura nelle tensioni etniche proprio qui a Cipro.
Ma il nostro atteggiamento positivo è più che un obbligo. Perché quando interi gruppi e comunità sono marginalizzati e sfruttati – quando l’ineguaglianza è sempre presente – la violenza diventa il modo per affrontare il problema della mancanza di speranza e della mancanza di opportunità. Come ha notato il Nobel per la pace — e visitatore della Georgetown University — Muhammad Yunnus “la povertà è una minaccia alla pace”. Proprio come la guerra è la “madre di tutte le povertà” [come dice la comunità di Sant’ Egidio] la povertà è anche la madre della guerra e della violenza.

Sappiamo che la violenza, l’intolleranza  e la discriminazione tra individui che tra gruppi spesso ha origine nella mancanza di impegno, interazione e comprensione. Per questo motivo è assolutamente necessario che continuiamo ad essere accoglienti nel senso più vero del termine verso quelli la cui fede e cultura è diversa dalla nostra.
Infine, accogliendo dentro quella comunità globale, cioè sostenendo e riconoscendo i diritti  di quelli che non accedono ai benefici della globalizzazione, compiamo un dovere morale. La nostra risposta positiva è tuttavia più che un semplice obbligo. Poiché quando interi gruppi e comunità sono messi ai margini e sfruttati, la violenza diventa un modo di affrontare collettivamente la mancanza di speranza e di opportunità. Il premio Nobel Muhammad Yunnus, che ha visitato l’università di Georgetown ha detto “la povertà è una minaccia per la pace” Proprio come la guerra è la “madre di tutte le povertà”(massima della comunità di sant’Egidio) la povertà è anche la madre della guerra e della violenza.
Ma in questo XXI secolo cosa dobbiamo fare per accogliere veramente, per abbracciare lo straniero, l’altro? Siamo giunti alla nostra terza ed ultima domanda. Credo che per accogliere gli altri dobbiamo impegnarci nella solidarietà. La solidarietà ci richiede di avere uno sguardo profondo e penetrante nel nostro proprio cuore e su noi stessi per trovare e riconoscere le radici oscure dell’ingiustizia, dell’odio conflitto, divisione e marginalizzazione. Ci richiede di riconoscere la dignità di ogni individuo.  E ci chiama alla responsabilità non solo per far crescere noi stessi ma anche per lo sviluppo della comunità umana.
Solidarietà richiede più di un mero servizio a chi ha bisogno, è ai margini, rifiutato, diverso, straniero. Richiede vero amore per gli altri che cerca di esprimersi in opere di giustizia.
Come il papa Giovanni Paolo II ha giustamente osservato "La solidarietà ci aiuta a vedere l'«altro»-persona, popolo o Nazione-non come uno strumento qualsiasi, per sfruttarne … la capacità di lavoro e la resistenza fisica, … ma come un nostro «simile», un «aiuto» (Gen2,18), da rendere partecipe, al pari di noi, del banchetto della vita, a cui tutti gli uomini sono egualmente invitati da Dio” (Enciclica Sollicitudo Rei Socialis, n. 39)
Il papa Giovanni Paolo II apprezzava la relazione tra tutti i popoli. Le sue parole mi ricordano quelle del rabbino Nachman di Breslov, uno dei fondatori del movimento cassidico, nel XIX secolo scrisse che c’era un ponte stretto tra relazione ed identità su cui noi tutti dobbiamo camminare. Dobbiamo attraversare il ponte con attenzione, ma senza paura. Poiché è paura, sfiducia, avversione verso gli altri, verso lo straniero che crea dei rischi. Se ci impauriamo, ci isoliamo e ci allontaniamo dai legami. . Ciò è qualcosa che, come il papa Giovanni Paolo II e Anwar Sadat certamente compresero, non possiamo fare.  
Come Abramo dobbiamo accogliere lo straniero in mezzo a noi. Dobbiamo coinvolgere lo straniero. Dobbiamo abbracciare lo straniero in mezzo a noi, non semplicemente come “l’altro” in mezzo a noi ma come un membro al pari di noi della comunità globale.. una comunità di cui noi tutti  facciamo parte, anche Zenone sarebbe stato d’accordo. Facendo così, veramente ci allontaneremo dalla paura e avanzeremo verso l’amore.
grazie